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«Lascia studiare mio figlio». Il debito da 147mila era arrivato a un milione #finsubito prestito immediato


«L’ultima volta mi ha detto: Samu ti prego se io dovessi… se io dovessi, ha detto lui, fare una botta di matto, queste sono state le parole te lo posso giurare… te prego solo per mio figlio, ha detto, solo quello ha detto, fallo finire di studiare…». L’ultimo pensiero prima di togliersi la vita, M. M., 54 anni, imprenditore romano del settore ittico, piegato dai debiti e annientato da una banda criminale di falsi amici e picchiatori, è stato per il figlio ventenne tanto da appellarsi a uno di loro per scongiurarlo almeno di permettere al ragazzo di proseguire negli studi, quando lui ormai non ci sarebbe più stato. A rivelarlo, inconsapevolmente, è uno degli stessi aguzzini intercettato dai carabinieri del Nucleo Investigativo di via In Selci mentre è al telefono con un conoscente a cui chiedeva un resoconto del funerale dell’imprenditore al quale non aveva avuto il coraggio di andare. «Queste sono state le parole te lo posso giurare Giancà…», diceva, mostrandosi dispiaciuto per l’accaduto: «Ovviamente gli ho detto di sì».

Chi parla è Samuele Melara, 36enne originario di Palmi (Rc), e socio occulto per il Food and beverage della società “Vantea spa” per cui M. M. aveva lavorato come rappresentate di prodotti ittici prima di essere stato messo alla porta a pochi giorni dal Natale del 2022 per un ammanco di 147mila euro. All’uomo, insieme con Francesco Vincenzo Maria Primerano, 67enne originario di Pizzo (Vibo Valentia), Francesco Protani, 44 anni e Simone Veglioni, 56 anni, titolare effettivo della Vantea, all’alba di ieri i carabinieri del comando provinciale di Roma hanno notificato un’ordinanza di misura di custodia cautelare in carcere emessa dal gip su richiesta della Dda poiché gravemente indiziati, a vario titolo, di estorsione con l’aggravante del metodo mafioso e morte come conseguenza di altro delitto. M. M. il primo marzo del 2023 aveva parcheggiato la sua Smart in una strada di Guidonia Montecelio, e legata la cinta dei pantaloni al tettuccio apribile del veicolo e poi stretta al collo, aveva deciso di porre fine alle «torture mentali» e alle vessazioni che era stato costretto a subire e di cui aveva parlato in una dettagliata denuncia presentata ai carabinieri pochi giorni prima, il 7 febbraio. L’imprenditore aveva riferito agli inquirenti che i quattro indagati, titolari e collaboratori della Vantea, stavano tentando di costringerlo, dietro reiterate minacce e pressioni, al pagamento di 600mila euro, a fronte di un debito inferiore, ossia dei 147mila euro pagati da un banchista del mercato Esquilino per una fornitura di pesce, che aveva trattenuto per fare fronte a delle incombenze della Craby srl, società che aveva messo su nel 2021 e che avrebbe rappresentato nei suoi obiettivi il futuro per la sua famiglia. Dell’ammanco, invece, alla Vantea se ne erano resi conto prima che lui provvedesse a rimettere il denaro.

LA DISPERAZIONE

E il 22 dicembre del 2022 Veglioni è categorico: «Non è più un problema mio, ho ceduto il credito ai calabresi che mi hanno indennizzato». Per il 54enne è l’inizio della fine. Viene contattato da Melara a cui chiede una proroga. Il 36enne diventa una furia: «Ma come con loro prendo tempo? Ma che è ‘na banca? Sono strozzini questi Max… Questi ti dicono 70mila, ok me li dai dopo… sono cento». “Questi” sono i calabresi. Nella denuncia M.M. spiega ai carabinieri che «una volta Melara mi parlò dei Morabito», facendo riferimento alla potente cosca di ‘ndrangheta. Il debito lievita a 600mila euro, poi a un milione, vale a dire un debito a vita. Il 28 dicembre l’imprenditore si ritrova nel magazzino della SM import di Melara a Ponte Galeria; ci va con Primerano, conosciuto come “Mare mare”, che a Fiumicino rifornisce di aragoste e crostacei, e che lui ritiene possa intermediare. Invece, prima gli fanno lasciare il telefono e lo perquisiscono poi lo costringono a firmare una carta in cui cede la Craby a fronte di un presunto maxi-debito. «Mi hanno minacciato anche di tagliarmi, sul momento, una mano. Avevano un’accetta e una pistola. Urlavo loro che avrebbero potuto pure uccidermi, ma mai avrei firmato. Poi, però, hanno minacciato la mia famiglia». M. M. nei giorni successivi tenterà di non perdere tutto. «In questa situazione mi viene tolto il lavoro, mi viene tolto Craby… cioè io so praticamente morto; Samuè sono disperato», l’ennesima preghiera allo strozzino. Ma non c’è pietà. Il gip nell’ordinanza spiega il «congiunto accerchiamento» a cui M. M. è sottoposto. Anche Veglioni è a conoscenza di tutto e viene costantemente informato sugli sviluppi. «La morte di Massimiliano – ha verbalizzato l’ex moglie agli inquirenti – qualora sia dovuta al suo suicidio, non sarebbe certamente intervenuta se non fosse stato pressato dalle preoccupazioni dovute alle minacce di tali persone di cui non sapeva come liberarsi».

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