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Nuovo Giornale Nazionale – LA LUGUBRE ROTTAMAZIONE DELLA POLITICA, OVVERO DELLA PARTITOCRAZIA #finsubito prestito immediato


C’è qualcosa di lugubre, nella diserzione in massa da parte degli elettori: lo dimostra anche l’ultima plateale rottamazione della politica, andata in scena alle regionali in Liguria. Alle urne solo il 46% degli aventi diritto, neppure uno su due. Equamente divisi tra centrodestra e centrosinistra: mai così in basso, nella storia. Gli outsider? Non pervenuti: tutti sotto l’1%. Erano divisi, ma anche uniti sarebbero stati irrilevanti. Elezioni anomale? Certamente perturbate dal caso Toti. E incorniciate dal livido tramonto dei 5 Stelle: li ha liquidati il fondatore genovese, Grillo, che ha ferocemente canzonato il grottesco Conte chiamandolo “mago di Oz”. Non che gli altri abbiano motivo per festeggiare: il partito della Meloni ha dimezzato i voti, letteralmente doppiato da quel Grande Nulla che va sotto il nome di Pd.

Ora, le cronache del post-voto possono apparire più che stucchevoli: lunari. Stanche speculazioni di routine, sulle irrisorie gesta di quell’esercito di soldatini che si svegliano a pochi mesi dalle elezioni e all’improvviso fingono di esistere, di contare davvero, di candidarsi ad amministrare qualcosa che non sia fatto solo di piccole clientele e modeste poltrone. La grande diserzione elettorale fu salutata come una provvidenziale palingenesi, due anni fa, dal popolo degli arrabbiati, gli italiani sottoposti alla sferza del micidiale tandem Conte-Draghi. Qualcuno arrivò a vaticinare svolte antropologiche, baciate dal sol dell’avvenire: semplicemente snobbando le urne, l’Uomo Nuovo si sarebbe liberato della tirannide.

Beate speranze, insomma: tutto troppo facile. Senza vedere che a svuotare la democrazia sono gli stessi poteri che la vararono, o la adattarono ai propri scopi: e oggi si godono lo spettacolo dello sfacelo politico, il trionfo di una disaffezione lungamente inseguita. Persino le regionali liguri lo ribadiscono plasticamente: la maggioranza dei cittadini ha capito che gli attuali politici non valgono nulla, si limitano a obbedire a poteri superiori. Da parte loro non c’è nessuna autonomia: non compiono scelte, si adeguano alle determinazioni altrui. E sono imposizioni contraddistinte dallo stesso segno: estendere il dominio, disastrare il welfare e vessare i sudditi, allontanare il cittadino da qualsiasi centro decisionale.

Da anni, ricorrendo a un lessico decisamente ruvido, l’avvocato e saggista Marco Della Luna parla di “zootecnia sociale” per rappresentare drasticamente il panorama in cui siamo immersi, dominato dalla manipolazione universale. I nuovi demiurghi maneggiano il futuro di miliardi di persone, disponendo di un potere globale quasi illimitato: finanziario, tecno-scientifico, mediatico, militare. Che i loro sventurati maggiordomi, i politici, si limitino a fare a gara per compiacerli, è ormai sotto gli occhi di tutti. Sempre più scontato, quindi, il rifiuto della partecipazione elettorale: che resta una tragedia civile, perché certifica la morte della politica come strumento fisiologico della democrazia.

Negli ultimi vent’anni, sulla comunità planetaria s’è abbattuto uno tsunami dopo l’altro. È cambiato tutto, tranne la recita obsoleta delle elezioni con il suo linguaggio paleozoico. Il gran falò ha bruciato demagoghi di talento, mestieranti della fede, apprendisti stregoni. Berlusconi e Bossi, il finto masaniello Di Pietro, il ciarliero Renzi. Dopo di loro Grillo, il sommo illusionista della scuderia Casaleggio-Sassoon sbarcato dal Britannia per poi indossare i panni del pifferaio magico. Tra le macerie della disillusione ha provato a farsi largo l’effimero Salvini, poi surclassato dall’altrettanto impalpabile Meloni. E ogni volta, delusione dopo delusione, la marea dei renitenti è fatalmente cresciuta.

Mentre cadono missili e dilagano i ricatti, i ministri si riuniscono per litigare sull’unica materia di loro competenza: il taglio ulteriore della spesa pubblica, imposto dalle entità sovrastanti che nessuno osa contraddire. La scena è penosa, almeno quanto gli inchini di fronte ai Padroni della Terra: vere e proprie divinità, rispetto a cui i politici nazionali (figurarsi gli elettori) non hanno voce in capitolo. Lo schema è esattamente quello collaudato dai sistemi teologici dogmatici, fondati sull’obbedienza: ma guai a dirlo. E in ogni caso, nessuno sembra accorgersene. Fede e speranza sono i sentimenti (religiosi) con cui molti guardano a Putin e Trump come provvidenziali salvatori, dopo aver vanamente sperato in Berlusconi, Bossi, Grillo, Salvini, Meloni.

La bancarotta della politica – morale e culturale, innanzitutto – è ben espressa dal suo linguaggio ormai alieno, patetico e ridicolo. Destra, sinistra: formule vuote, come le supercazzole di Prodi e degli altri turbo-privatizzatori, che smantellarono la Prima Repubblica come richiesto dall’oligarchia finanziaria neoliberista. Un potere apolide e ramificato in ogni dove, negli uffici di qualsiasi governo terrestre, in tutti gli organismi (ormai largamente privati) da cui dipende il destino del pianeta. Era il 2003 quando l’antropologo svizzero Jean Ziegler scrisse “La privatizzazione del mondo”. All’epoca, tenevano banco gli euro-entusiasmi e l’invasione dell’Iraq propiziata dall’11 Settembre.

Le avanguardie sembrano destinate a essere regolarmente inascoltate. A Ziegler, in Italia fece eco il sociologo Luciano Gallino, quando parlò di “lotta di classe alla rovescia” denunciando lo smantellamento brutale dei diritti sociali. E se qualcuno immagina che sia imminente una svolta democratica, una ribellione pacifica e dunque efficace, probabilmente si sbaglia. Nel 2020, di fronte allo sconcertante regime introdotto da Conte (lockdown e coprifuoco) la maggioranza rispose aderendo alla slogan “Io resto a casa”. Sono “rimasti a casa”, comprensibilmente, anche gli elettori della Liguria. Ma non hanno un piano-B: nessuno in cui credere, nessun programma alternativo. Nessun linguaggio adeguato. Nient’altro che il fango da spalare dalle strade, dopo l’ennesima alluvione.





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