«A me è sempre interessata tutta la realtà». Così si racconta Ferdinando Scianna, mentre autografa le ultime copie del catalogo, il 13 novembre alla presentazione della mostra “Ferdinando Scianna. La geometria e la compassione”, che propone presso il Centro culturale di Milano (Cmc) 67 opere original print in bianco e nero scattate dall’autore siciliano tra il 1964 e il 1990.
Scianna ha l’espressione appassionata di un vagabondo, che nel cuore però rimane siciliano, con il suo tratto affabile, capace di spiegare le opere e la sua visione della fotografia a chiunque gli si avvicini per una curiosità o per chiedere un suggerimento. Il fotoreporter è un’esplosione di energia che non si ferma di fronte ai suoi 81 anni compiuti e non ha smarrito la voglia di raccontare e raccontarsi attraverso gli scatti. Perché per lui nella fotografia c’è sempre stato il desiderio di non fuggire davanti alle domande della vita, anche quelle più taglienti e laceranti.
«Che senso ha fare foto qui?»
L’apice di questa ricerca personale arriva di fronte all’orrore della fame in un viaggio in Etiopia, nella città di Makallè. Le infermiere della Croce Rossa stavano pesando i bambini che gli venivano portati. Di fronte allo strano gesto Scianna ne domanda il motivo. «Dobbiamo selezionare quelli che hanno bisogno di un intervento urgente, tralasciando gli altri per cui è troppo tardi», rispondono le donne. Per il fotografo è troppo, così descrive quel momento in un testo che accompagna alcuni scatti compiuti nel viaggio:
«Ebbi una sorta di collasso psicologico: non riuscivo più a fare foto. Troppo dolore; che senso ha fare foto in una situazione del genere? Mi chiedevo».
È ancora più bloccato dopo un dialogo con un medico italiano. Alle sue domande, l’uomo risponde: «Non ho tempo per la crisi di un fotografo, c’è troppo da fare». Scianna si risveglia quando si accorge di avere fame: «Cominciai a riflettere sul fatto che il mio corpo esisteva, esisteva la mia necessità fisica, più impellente e pervasiva di ogni mio blocco psicologico e morale. Da lì intesi che non potevo cambiare il mondo con la mia fragilità. Non potevo fuggire. Così tornai a fare il mio mestiere».
L’esposizione di Scianna al Cmc
La mostra e il libro pubblicato per l’occasione sono divisi in otto capitoli che esplorano altrettanti temi: miseria, malattia, catastrofi, violenza, emigrazione, emarginazione, solitudine e morte. A corredo delle immagini vi sono dei brevi testi che non vogliono essere delle semplici didascalie, come tiene a precisare Scianna, ma una sorta di completamento delle immagini.
A spiegazione del titolo dell’esposizione (“La geometria e la compassione”) il fotografo sottolinea che «niente si può esprimere senza un forma. È attraverso questa che esprimiamo il sentimento della compassione, quel venticello fragile che subito si disperde se la sofferenza degli altri si avvicina troppo e rischia di trasformarsi in paura per noi».
Camillo Fornasieri, curatore dell’esposizione e direttore del Centro culturale di Milano, racconta che in Scianna ha trovato «un uomo che vive la realtà come segno. La sua fotografia ti spacca in due, ti mette di fronte a una verità che non si può fuggire. Nei suoi scatti trovano spazio tristezza e felicità, che colpiscono l’osservatore senza la possibilità che queste emozioni ti scivolino addosso».
La prima macchina fotografica
La storia del reporter parte da Bagheria, a pochi chilometri da Palermo, dove scatta le prime fotografie. «A quindici anni mio padre al ritorno da un viaggio mi regalò la prima macchina fotografica, poi se ne pentì amaramente perché i miei genitori volevano facessi il medico o l’ingegnere – racconta a Tempi Scianna -. All’inizio scattavo qualche ritratto alle compagne che mi piacevano quasi per gioco, poi però cominciarono a cercarmi per farsi ritrarre. Da lì ho cominciato e non mi sono più fermato». Fondamentali gli incontri con Leonardo Sciascia, suo grande amico, che ha voluto inserire i suoi scatti in Feste religiose in Sicilia, e con il celebre fotografo francese Henri Cartier-Bresson nel soggiorno decennale di Scianna a Parigi, che influenzò notevolmente la sua evoluzione stilistica.
La sua è una vita di spostamenti, prima dalla Sicilia a Milano, e poi, diventato fotoreporter per il settimanale L’europeo, in giro per il mondo come inviato speciale. Nel 1989, primo tra gli italiani, è divenuto membro della prestigiosa agenzia fotografica internazionale Magnum Photos.
Una vita in bianco e nero
Per tutta la vita Scianna si è mantenuto fedele al bianco e nero, rappresentando i suoi soggetti quasi sempre in pose spontanee, servendosi della luce naturale del sole, che «mi interessa solo perché fa ombra». I soggetti spesso sono calati nel loro contesto, come se l’osservatore dovesse immaginare la prosecuzione dello scatto oltre la scena. I paesaggi e le ambientazioni sono scuri e attraversati da lunghe ombre che segnano i volti e le espressioni dei protagonisti.
Nella sua produzione non mancano i ritratti, attraverso cui l’autore tenta di «cogliere lo spirito del soggetto, rappresentandone l’anima e non solo il volto». Del resto, lo stesso fotografo scrive: «Nei teatri delle guerre, come nelle catastrofi, mi è sempre sembrato che quello che meglio raccontava i fatti fossero le facce, le espressioni degli uomini, delle donne, che quei fatti e quelle cose che vengono chiamati Storia li subiscono e basta».
L’esposizione è aperta fino al 18 gennaio presso la sala espositiva del Cmc, in Largo Corsia dei servi 4 a Milano, dal martedì al venerdì, dalle 9.30 alle 13.00 e dalle 14.30 alle 18.00, e nel fine settimana dalle 15 alle 19 (ingresso 10 euro, ridotto 7 euro).
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