di Christine Lagarde, Presidente della BCE, in occasione del 34o European Banking Congress “Out of the Comfort Zone: Europe and the New World Order”
Francoforte sul Meno, 22 novembre 2024
Nell’intervento tenuto lo scorso anno in occasione di questa conferenza ho affrontato il tema della frammentazione dei mercati dei capitali in Europa e dell’urgente necessità di integrarli.
La mia argomentazione si fondava principalmente sul fatto che l’Europa fosse alle prese con trasformazioni contraddistinte da un elevato fabbisogno di finanziamento, che non saremmo riusciti ad affrontare senza mobilitare il capitale privato in modo molto più efficace.
Ho sostenuto la necessità di una “svolta kantiana” nel nostro approccio all’unione dei mercati dei capitali per passare dall’armonizzazione dal basso verso l’alto a un’integrazione che muovesse nella direzione opposta[1].
Ma, con le parole di Martin Luther King, “ora ci troviamo di fronte al fatto che il domani è oggi”. E nel frattempo l’urgenza di integrare i nostri mercati dei capitali è aumentata.
Dallo scorso anno l’arretramento dell’Europa in termini di innovazione è emerso con ulteriore chiarezza. Il divario tecnologico tra gli Stati Uniti e l’Europa è ormai innegabile.
Anche il contesto geopolitico è diventato meno favorevole, con crescenti minacce al libero scambio provenienti da tutte le parti del mondo. Essendo la più aperta tra le principali economie, l’UE risulta più esposta a queste tendenze.
L’unione dei mercati dei capitali è al centro di tutte queste sfide.
È un elemento fondamentale affinché la nostra economia diventi più dinamica e tecnologicamente avanzata. Sebbene le banche svolgano un ruolo essenziale nell’economia europea, sappiamo che servono mercati dei capitali integrati per finanziare le prime fasi di un’innovazione pionieristica.
Ed è altrettanto fondamentale per accrescere la nostra capacità di tenuta a fronte della frammentazione dell’economia mondiale. I mercati dei capitali sono l’anello mancante che consentirebbe ai cittadini europei di convertire i loro ingenti risparmi in maggiore ricchezza, permettendo loro in ultima analisi di spendere di più e rafforzare la nostra domanda interna.
Tuttavia, l’urgenza crescente non è stata accompagnata da progressi tangibili verso l’unione dei mercati dei capitali, soprattutto perché la sua attuazione continua a essere definita in modo sommario.
Dal 2015 sono state presentate oltre 55 proposte normative e 50 iniziative non legislative, ma quest’ampia produzione è andata a scapito del livello di profondità. Ha determinato la frammentazione del progetto secondo interessi nazionali, in base ai quali specifiche iniziative sono state viste come una minaccia.
Per realizzare una “svolta kantiana” occorre pertanto ridefinire le priorità del progetto, facendo emergere le inefficienze principali del sistema e individuando un numero minore di iniziative maggiormente efficaci.
Credo che il problema centrale dell’unione dei mercati dei capitali UMC sia la presenza di ostacoli in tre passaggi fondamentali lungo il “canale di collegamento” tra risparmiatori e innovatori: l’ingresso, la diffusione e l’uscita.
In primo luogo, i risparmi europei non entrano nei mercati dei capitali in quantità sufficiente perché si concentrano in depositi a basso rendimento.
In secondo luogo, quando raggiungono i mercati dei capitali, i risparmi restano intrappolati in compartimenti stagni nazionali senza diffondersi nell’economia europea.
In terzo luogo, dopo essere stati distribuiti mediante i mercati dei capitali, i risparmi in uscita non si dirigono verso imprese e settori innovativi, a causa di un ecosistema di venture capital poco sviluppato.
Questi tre ostacoli richiedono soluzioni diverse, ma devono essere considerati come un unico problema, in quanto si rafforzano a vicenda. Un minor numero di società ad alto potenziale di crescita si traduce in una riduzione delle valutazioni azionarie e della liquidità nei mercati dell’UE nonché in minori rendimenti per i risparmiatori.
Nel mio intervento odierno illustrerò i principali ostacoli individuati in ciascun ambito e presenterò alcune proposte operative per superarli.
Ingresso nei mercati dei capitali
I cittadini europei destinano al risparmio una quota elevata del proprio reddito, pari nel 2023 a circa il 13%[2], a fronte dell’8% circa negli Stati Uniti.
In genere però prediligono prodotti di risparmio liquidi e a basso rischio. In Europa circa 11.500 miliardi di euro sono detenuti sotto forma di contanti e depositi, ossia un terzo delle attività finanziarie totali delle famiglie. Lo stesso dato per gli Stati Uniti è pari ad appena un decimo.
Le conseguenze principali per la nostra economia sono duplici.
In primo luogo, la ricchezza delle famiglie europee è molto minore di quanto potrebbe essere. Dal 2009 la ricchezza delle famiglie statunitensi è cresciuta di circa il triplo rispetto a quella delle famiglie dell’UE[3].
In secondo luogo, il flusso di risparmio verso i mercati dei capitali è molto inferiore di quanto potrebbe essere.
Secondo l’analisi della BCE, se le famiglie dell’UE dovessero allineare il proprio rapporto depositi/attività finanziarie a quello delle famiglie statunitensi, potrebbero essere reindirizzati fino a 8.000 miliardi di euro verso investimenti a lungo termine basati sul mercato, pari a un flusso di circa 350 miliardi all’anno.
Perché allora le persone non diversificano le proprie attività?
Una questione fondamentale è che gli investimenti al dettaglio in Europa sono frammentati, opachi e costosi.
In molti paesi effettuare investimenti è complesso e comporta l’intermediazione di consulenti finanziari nei quali non sempre si ha fiducia. Il 45% dei consumatori dichiara di non avere la certezza che la consulenza ricevuta consideri principalmente i loro interessi[4].
E se le famiglie investono, spesso non lo fanno alle condizioni migliori. Gli investitori al dettaglio nei fondi comuni europei, ad esempio, pagano quasi il 60% in più di commissioni rispetto alle loro controparti statunitensi[5].
Molti europei finiscono quindi per investire automaticamente nel risparmio garantito.
Ma quando i mercati sono più competitivi e i consumatori possono scegliere tra un’ampia gamma di prodotti di investimento adeguati, il comportamento cambia. Nei Paesi Bassi, in Svezia e in Danimarca le famiglie gestiscono le proprie attività in modo analogo a quelle statunitensi, detenendone solo il 10-20% sotto forma di attività liquide.
Pertanto, se vogliamo superare l’ostacolo “all’entrata” del canale di collegamento, è necessario che i risparmiatori europei dispongano di prodotti accessibili, trasparenti e a costi sostenibili. A mio avviso, uno “standard di risparmio europeo”, ossia un insieme standardizzato di prodotti di risparmio a livello di UE, è il modo migliore per conseguire tali obiettivi.
Se adeguatamente ideati e distribuiti, tali prodotti risulterebbero accessibili, sarebbero quindi semplici da comprendere, disponibili ovunque e offrirebbero una serie di opzioni di investimento. Dovrebbero essere trasparenti, ossia concepiti in base a criteri chiari, quali la diversificazione, la struttura delle commissioni e la composizione del portafoglio.
E dovrebbero avere costi sostenibili, in quanto i fornitori di servizi finanziari sarebbero in grado di offrire prodotti certificati a livello di UE con meno burocrazia, e la standardizzazione determinerebbe maggiore comparabilità e concorrenza. Entrambi gli effetti dovrebbero ridurre le commissioni.
L’attrattiva dello standard europeo dovrebbe inoltre essere rafforzata dall’armonizzazione degli incentivi fiscali in tutti i paesi.
Sarebbe il mercato a decidere la direzione dei risparmi, non i governi. Ma, a seconda delle preferenze dei risparmiatori, potrebbero essere offerti prodotti a sostegno delle priorità europee, come il finanziamento dell’innovazione e della transizione verde.
Diffusione in tutta Europa
Per sfruttare appieno il potenziale innovativo dell’Europa, occorre che i finanziamenti confluiscano verso le idee migliori. E data la natura della tecnologia digitale, che spesso richiede ingenti investimenti iniziali, è necessario che i volumi di tali flussi siano consistenti.
Tuttavia, anche il secondo passaggio del canale di collegamento, ossia la diffusione dei capitali in tutta Europa, è ostacolato.
In Europa il capitale è bloccato all’interno dei confini nazionali oppure è diretto verso gli Stati Uniti. Se si considerano ad esempio le azioni e partecipazioni, oltre il 60% degli investimenti delle famiglie europee avviene all’interno del proprio paese. Gli investitori istituzionali sono molto più attivi nei mercati statunitensi che in quelli dell’UE.
Sono molte le ragioni alla base di questa segmentazione dei mercati europei, ma una causa fondamentale è che le nostre infrastrutture dei mercati finanziari presentano un’estrema frammentazione.
Nel 2023 vi erano 295 sedi di negoziazione nell’UE[6], nonché 14 controparti centrali e 32 sistemi di deposito accentrato[7]. Negli Stati Uniti vi sono solo due società di compensazione titoli e un sistema di deposito accentrato.
Sebbene molti di questi soggetti appartengano a gruppi transfrontalieri paneuropei, gli scambi nazionali rimangono in gran parte a sé stanti, fatta eccezione per alcune sinergie tecniche come i portafogli ordini consolidati.
Tale frammentazione genera elevati costi di transazione per le negoziazioni transfrontaliere, determinando, secondo l’analisi della BCE, una maggiore preferenza degli investitori per i titoli del proprio paese[8].
Ne deriva una minore liquidità per investitori, emittenti e borse valori. Rispetto alle controparti dell’UE, negli Stati Uniti il volume medio giornaliero delle negoziazioni per società è 1,3 volte superiore per i titoli a grande capitalizzazione e due volte superiore per i titoli a media capitalizzazione[9].
A cosa è dovuta questa frammentazione?
La ragione principale è che i quadri giuridici all’interno dell’UE non sono uniformi e tutti i tentativi di armonizzazione significativi sono ostacolati da interessi di parte.
Abbiamo un mosaico di norme nazionali in materia societaria, fiscale e di strumenti finanziari, con obblighi diversi relativi a operazioni societarie, servizi di custodia e segnalazione[10].
Le autorità nazionali tendono ad esacerbare questo problema anziché ridurlo. Ad esempio, alcuni Stati membri impongono il ricorso a sistemi di deposito accentrato nazionali per l’emissione di titoli ai sensi del diritto nazionale o per il regolamento delle emissioni primarie di titoli di Stato.
Questo panorama variegato costituito da autorità e regimi diversi limita fortemente la capacità delle borse e dei sistemi di deposito accentrato di integrare le proprie piattaforme nazionali, anche all’interno di gruppi transfrontalieri.
Si stanno compiendo alcuni passi avanti. L’Europa va verso un sistema consolidato di pubblicazione comune[11] che contribuirà a ridurre i costi di transazione. Tale sistema potrebbe ridurre i costi di negoziazione del 40-60% aumentando la trasparenza tra operatori e investitori[12].
Non risolverà però il problema fondamentale, ossia che il nostro approccio incrementale, incentrato sull’armonizzazione di una moltitudine di leggi nazionali, procede semplicemente troppo a rilento.
Se guardiamo agli Stati Uniti, la convergenza legale spesso non avviene attraverso l’armonizzazione totale delle leggi a livello statale, ma piuttosto mediante l’introduzione di normativa a livello federale o con l’affermarsi della legge di uno Stato come predominante. Ad esempio, quasi l’80% di tutte le società statunitensi che hanno effettuato operazioni di prima quotazione in borsa nel 2022 era registrato in Delaware[13].
In Europa, non riusciremo a progredire promuovendo l’ordinamento giuridico di un paese rispetto a un altro. Per questo nell’intervento dello scorso anno ho proposta la creazione di una “SEC europea”[14], che potrebbe essere organizzata come rete di uffici negli Stati membri. Ma oltre a questo obiettivo ci sono anche altre opzioni percorribili.
Una possibilità sarebbe l’adozione di un approccio a due livelli, come nel caso delle norme in materia di concorrenza o della vigilanza bancaria. I soggetti che soddisfano determinati criteri rientrerebbero automaticamente nella giurisdizione dell’UE, ma all’interno di un quadro giuridico comune a livello europeo.
Un’altra possibilità sarebbe il ricorso al “28o regime”, che ci consentirebbe di definire un quadro giuridico specifico negli ambiti in cui i progressi hanno subito una battuta d’arresto. A margine dei vari regimi nazionali vi sarebbe quindi un regime giuridico dell’UE separato al quale le imprese possono aderire.
Ritengo che l’approccio più realistico sia probabilmente combinare le diverse alternative.
Ad esempio, per evitare il complicato processo di armonizzazione normativa, potremmo prevedere un 28o regime per gli emittenti di titoli. Questi beneficerebbero di un diritto unificato in materia societaria e di strumenti finanziari, che agevolerebbe il collocamento, la detenzione e il regolamento transfrontalieri.
È tuttavia improbabile che tale regime funzioni per la vigilanza, in quanto potrebbe determinare un’applicazione incoerente della regolamentazione nonché incentivi disallineati se i soggetti stessi scelgono la propria autorità di vigilanza. Potremmo quindi ipotizzare un approccio a due livelli.
I prestatori di servizi finanziari che soddisfano una serie di criteri, come dimensioni o attività transfrontaliere, sarebbero sottoposti alla vigilanza europea[15]. Le autorità nazionali continuerebbero a vigilare sugli operatori nazionali più piccoli. La stretta collaborazione tra l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati e le autorità nazionali sarà cruciale per il successo di tale approccio.
L’uscita dei capitali verso i settori innovativi
Pur riuscendo a far circolare più liberamente i capitali in Europa, sarà necessario assicurare che, uscendo dal sistema finanziario, si dirigano verso settori e imprese innovativi. È questo il terzo ostacolo lungo il canale di collegamento in Europa.
Nelle economie altamente innovative esiste in genere un ecosistema di investitori, quali angel investor e venture capitalist, che convogliano fondi verso start-up a elevato potenziale di crescita, fornendo in gran parte capitale di rischio. Ma tale ecosistema in Europa è molto meno sviluppato rispetto agli Stati Uniti. Gli investimenti in venture capital rappresentano appena un terzo di quelli statunitensi[16].
Il risultato è che le giovani imprese innovative incontrano difficoltà a crescere in Europa, soprattutto una volta raggiunta la fase di espansione in cui sono necessari maggiori finanziamenti. Un’impresa media europea finanziata da venture capital riceve circa metà del sostegno rispetto a una controparte statunitense[17].
Dipendiamo inoltre ampiamente da venture capital estero per il finanziamento dell’innovazione europea. Oltre il 50% dell’investimento in fase avanzata a favore di società tecnologiche europee proviene dall’esterno dell’UE[18].
Come economia aperta, accogliamo investimenti da tutte le parti del mondo. Ma se gli imprenditori del settore tecnologico dell’UE ricevono per lo più finanziamenti esteri, è possibile che si crei un percorso vincolato. Potrebbero decidere in ultima analisi di quotarsi in borsa e ampliare la propria attività altrove, soprattutto nel mercato statunitense, configurando quella che chiamerei “un’uscita indesiderata”.
Cosa possiamo fare per colmare questo deficit di finanziamento?
Agire dal lato della domanda è fondamentale. Gli imprenditori nel nostro mercato unico sono gravati da troppi ostacoli e oneri burocratici; abbiamo quindi poche imprese a elevato potenziale di crescita che gli investitori in venture capital vogliono finanziare. Le raccomandazioni contenute nelle relazioni di Letta e Draghi sul completamento del mercato unico sono essenziali affinché il venture capital svolga un ruolo più importante.
Ma è necessario agire anche dal lato dell’offerta. E poiché partiamo da una situazione deficitaria, dobbiamo sfruttare tutta la flessibilità di cui disponiamo all’interno del sistema finanziario europeo per liberare i finanziamenti a favore dell’innovazione. Tre modifiche concrete potrebbero fare la differenza.
In primo luogo, dato il naturale allineamento degli orizzonti di investimento, il nostro regime normativo dovrebbe consentire agli investitori a lungo termine di contribuire maggiormente alla crescita di lungo termine.
Ad esempio, i fondi pensione dell’UE destinano solo lo 0,02% delle attività totali al venture capital, rispetto a quasi il 2% attribuito dai fondi pensione statunitensi. E questa percentuale si applica a una base di attività molto più ampia: oltre il 140% del PIL negli Stati Uniti, contro circa il 30% nell’UE[19].
In secondo luogo, dovremmo sfruttare appieno le possibilità offerte dalle nostre banche pubbliche di sviluppo, in particolare la Banca europea per gli investimenti (BEI), al fine di mettere in comune i rischi e attirare capitale privato.
Sono già in cantiere iniziative di successo in tal senso. Lo scorso anno la BEI e sei Stati membri hanno lanciato la European Tech Champions Initiative, un fondo di fondi volto a convogliare i capitali di crescita in fase avanzata verso innovatori europei promettenti.
Finora questo fondo ha mobilitato 10 miliardi di euro in risorse pubbliche e private e ha sostenuto 16 scale-up tecnologiche. Si tratta di un dato significativo, se si considera che nel 2023 le scale-up europee hanno ricevuto circa 30 miliardi di euro di investimenti in venture capital.
Ma si può fare di più per sfruttare il potenziale della BEI e riuscire a recuperare terreno più rapidamente con le nostre controparti. In particolare, la BEI dovrebbe essere autorizzata a impiegare le proprie risorse con più efficacia e fornire una gamma più ampia di strumenti per sostenere le innovazioni pionieristiche, soprattutto nell’ambito del sostegno alle start-up in fase iniziale.
In terzo luogo, dovremmo esaminare come sostenere l’innovazione non solo mediante capitale di rischio, ma anche attraverso il debito. Pur dovendo aspirare in ultima analisi ad avere livelli di investimenti in venture capital pari a quelli degli Stati Uniti, l’Europa dovrebbe nel frattempo sfruttare al meglio il sistema basato sulle banche di cui dispone.
Queste possono svolgere un ruolo nel finanziamento dell’innovazione. Uno sviluppo interessante cui si è assistito in Europa nell’ultimo decennio è stato l’aumento del venture debt, ossia prestiti che forniscono liquidità alle start-up fra i cicli di finanziamento azionario. Nel 2022 sono stati destinati circa 24 miliardi di euro in venture debt, in aumento rispetto a circa 1 miliardo nel 2014[20].
Tuttavia, se le banche devono erogare più credito a settori più rischiosi, nel rispetto della normativa prudenziale, hanno bisogno di margine di bilancio per poterlo fare. Lo sviluppo della cartolarizzazione in Europa potrebbe svolgere un ruolo di supporto.
Attualmente le banche dell’UE prestano oltre 600 miliardi di euro alle società immobiliari, ma meno di 100 miliardi alle imprese tecnologiche, anche se il contributo di ciascun settore al valore aggiunto reale è pressoché identico[21]. Gli strumenti che sarebbero in grado di facilitare un certo riequilibrio di queste esposizioni potrebbero sostenere l’attività innovativa in Europa.
Conclusioni
Si dice che Leonardo da Vinci abbia osservato: “Sapere non è abbastanza, dobbiamo applicare. Volere non è abbastanza, dobbiamo fare.”
Oggi i leader europei sono consapevoli dei problemi causati dalla frammentazione dei mercati dei capitali e sono disposti ad agire. Ma finora non siamo passati né all’applicazione né all’azione.
La mancanza di progressi deriva sostanzialmente dalla definizione generica di unione dei mercati dei capitali e dall’approccio legislativo frammentario che questa genera. Ciò, a sua volta, fa sì che il progetto sia vittima della “morte dei mille tagli”, in quanto interessi di parte ostacolano o edulcorano ogni atto legislativo.
Ho presentato oggi un quadro per riorientare i nostri sforzi, al fine di fornire il dettaglio e l’indirizzo di cui abbiamo bisogno per superare lo stallo.
È questa la svolta kantiana di cui ho parlato lo scorso anno: un cambio di prospettiva per passare da molte piccole azioni a poche grandi azioni, prediligendo quelle che possiamo di fatto intraprendere e che daranno il contributo maggiore.
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