Con un linguaggio non impositivo, nel paragrafo 14 la Conferenza delle parti delle Nazioni Unite “prende atto” del bisogno di finanza per il clima in forma di concessioni, prestiti altamente agevolati e in forma di finanza pubblica, specialmente a supporto di azioni di adattamento e per compensare perdite e danni. Nel paragrafo 15 si parla dell’importanza di aumentare entro il 2030 la percentuale di finanza mobilitata da fonti pubbliche, ma senza imporre obiettivi specifici o scadenze a nessuno.
La Cina
L’altro tema caldo della Cop29 è l’allargamento della base dei contributori. Oggi persiste la differenza tra Paesi sviluppati e non, sulla base della Convenzione di Rio firmata nel lontano 1992. Da tempo si chiede alla Cina di fare la propria parte (è prima al mondo in termini di emissioni aggregate, anche se per emissioni pro-capite è settima). Il governo cinese ha mostrato apertura negli ultimi quindici giorni. Ma ha fiutato una trappola (c’è una guerra commerciale in corso, va ricordato), e preteso rassicurazioni sul fatto che i trattati non verranno cambiati, e che anche una contribuzione volontaria non andrà mai a tradursi in un obbligo( articolo 10).
In sostanza, si tratta di beneficienza, che non potrà de facto cambiare uno status che dal punto di vista giuridico è cristallizzato a un’altra epoca. Tutto questo è finito in un articolo scritto su misura. Senza mai (come è ovvio in diplomazia) nominare direttamente gli interessati, ma con il chiaro intento di calmare le acque e non far fallire il compromesso. Quest’anno dalla Cina si attendeva un ruolo di guida delle politiche climatiche globali, dato il peso degli Stati ridimensionato dall’elezione del negazionista Donald Trump. È stato così solo in parte. Secondo alcuni, le relazioni di Pechino con i Paesi produttori di petrolio non consentono margini di manovra ampi.
No alla corsia preferenziale alle piccole isole
Nelle bozze precedenti c’era una interessante corsia preferenziale per le piccole isole (Aosis) e i Paesi poverissimi (Ldc, least developed countries). È scomparsa in questo testo, sacrificata probabilmente per soddisfare le richieste del G77 (un gruppo di nazioni in via di sviluppo), che hanno condotto la Cop al suono del grido di battaglia “trillions, not millions” (miliardi, non milioni). Riservare un percorso su misura a chi sta per andare sott’acqua a causa della crisi climatica avrebbe diluito ulteriormente i fondi immaginati nel corso delle due settimane in Azerbaijn. Così, chi più ne ha bisogno, ancora una volta non trova soddisfazione. Denari ne arriveranno ugualmente: ma senza una previsione ad hoc, tutto resta vago.
L’obiettivo degli 1,5 gradi
È stato mantenuto l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 rispetto all’era preindustriale, come previsto dall’accordo di Parigi. “Questo è positivo – commenta il think tank Italian climate network -. Negativa invece l’assenza, nelle cinque pagine di testo, a un qualsiasi riferimento all’uscita dalle fonti fossili che questa finanza mobilitata dovrebbe supportare; solo il paragrafo 2 infatti “riafferma” gli esiti del Global Stocktake, senza tuttavia citarli”. Durante la Cop, il blocco degli esportatori di petrolio (capeggiato dall’Arabia Saudita) si è opposto strenuamente a ripetere esplicitamente il “transitioning away” dalle fonti fossili scritto nella decisione finale di Dubai. Come nota un vecchio diplomatico, indietro non si torna, l’appiglio c’è: ma il fatto che non sia stato ribadito mostra la fragilità di quel punto, definito, troppo enfaticamente e frettolosamente, come “storico” ai tempi.
Le reazioni
La bozza lascia molti scontenti. La cifra di 250 miliardi è “totalmente inaccettabile” dice Ali Mohamed, presidente del Gruppo dei negoziatori africani. Sandra Guzman Luna, fondatrice del Climate Finance Group for Latin America and the Caribbean, dice che “il quantum di 250 miliardi proposto con la formulazione attuale non è accettabile, perché prevede tutte le differenti fonti di finanziamento. Se la formulazione non cambia, dovranno essere almeno 500. Altrimenti non è progresso“.
Meno scontento l’High Level Independent Group on Climate finance, che ritiene che i 1.300 miliardi “sono in linea con la nostra analisi degli investimenti e finanza richiesti dai Paesi in via di sviluppo, Cina esclusa, per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi”. Quanto ai 250 miliardi l’anno entro il 2035 da parte dei Paesi sviluppati, “la cifra è troppo bassa e non il linea con l’accordo”. Secondo il think tank, servirebbero 300 miliardi l’anno entro fino al 2030 e 390 entro il 2035.
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