La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP29), che doveva chiudersi venerdì 22 a Baku, in Azerbaigian, durerà un giorno in più: si concluderà sabato 23 novembre, e probabilmente con un accordo del tutto insufficiente a far fronte alle necessità imposte dalla realtà riguardo ai tre temi più spinosi e divisivi: il finanziamento climatico, l’operatività del fondo per le perdite e i danni, e il potenziamento degli impegni nazionali per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. I negoziati alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Baku continuano nella notte tra venerdì e sabato a ritmo serrato e l’Assemblea plenaria è stata rinviata a domani.
Mai come nella COP 29 di Baku, scrive Lucia Capuzzi su Avvenire, “la linea del denaro ha diviso le potenze industriali storiche – sostanzialmente Usa, Ue, Giappone, Australia, Gran Bretagna, Canada, Norvegia, Nuova Zelanda, Svizzera – dal resto del pianeta. Africa, piccoli Stati insulari, America Latina, Sud-Est asiatico sono arrivati con una richiesta univoca: un contributo annuale di 1.300 miliardi di dollari dal 2035 – trillions o trilioni – per realizzare la transizione energetica in modo da contenere le emissioni e far fronte al riscaldamento globale”. La bozza del documento finale recitava infatti: “La COP29 invita tutti gli attori a lavorare insieme per consentire l’aumento dei finanziamenti per l’azione per il clima ai Paesi in via di sviluppo da tutte le fonti pubbliche e private ad almeno 1,3 trilioni di dollari all’anno entro il 2035”. Si cita così la cifra più volte rivendicata dal Sud globale come fondamentale per affrontare la crisi climatica: 1300 miliardi di dollari. alla quale avrebbero dovuto contribuire “tutti gli attori”.
Ma tale cifra, confermata dal gruppo di economisti indipendenti – Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern – chiamato dall’Onu a elaborare la stima delle necessità reali, non è stata accettata: alla fine sembra che ci si accorderà per circa un quinto del totale, non più di 250 miliardi, e nemmeno in forma di finanziamenti pubblici a fondo perduto ma ricorrendo a “un’ampia gamma di risorse”. Inclusi, dunque, i prestiti a tasso più o meno agevolato che rischiano di aggravare il debito estero degli Stati poveri che rappresenta già un ostacolo insormontabile sul loro cammino.
“Duecentocinquanta miliardi sono una cifra totalmente inaccettabile e inadeguata”, ha commentato il negoziatore del Gruppo africano. “Una vergogna”, ha rinforzato la dose l’inviata delle Isole Marshall, Tina Stege. “Una gabbia che imprigiona qualunque slancio – ha affermato l’Alleanza delle piccole isole –. Domandiamo solo la protezione che ci è stata promessa con gli Accordi di Parigi. Se no ci sarà impossibile accettare. Non è una minaccia. Ma una questione di giustizia”. Amb Ali Mohamed, inviato speciale del Kenya ha parlato di un testo totalmente inaccettabile e inadeguato: in particolare i 250 miliardi di dollari a carico dei Paesi ricchi. “L’Adaptation Gap Report dell’Onu afferma che la cifra necessaria all’adattamento (a prevenire cioè i danni da crisi climatica, ndr) ammonta a 400 miliardi di dollari: 250 miliardi di dollari porteranno a una perdita di vite umane inaccettabile in Africa e nel resto del mondo”, ha detto Mohamed. “È uno scherzo”, gli ha fatto eco Alpha Kaloga, negoziatore dell’African Group.
“È ridicolo, semplicemente ridicolo”, ha detto Juan Carlos Monterrey Gómez, rappresentante speciale di Panama per il cambiamento climatico. “Ieri, senza cifre, ci schiaffeggiavano in faccia. Ora con le briciole che ci stanno offrendo, ci stanno sputando in faccia. A questo punto tutte le opzioni sono sul tavolo, inclusa l’opzione nucleare: andarsene da Baku senza un accordo”.
“La presidenza spera di spingere i Paesi a superare i 250 miliardi di dollari”, ha dichiarato ai giornalisti il capo negoziatore Yalchin Rafiyev, viceministro degli Esteri dell’Azerbagian, a proposito del lavoro di modifica in corso sulla bozza di accordo per la finanza climatica. I 250 miliardi di dollari – spiega – “non corrispondono al nostro obiettivo, equo e ambizioso. Ma continueremo a coinvolgere le parti”.
“Ci aspettano una lunga notte, forse due, prima di arrivare a un accordo”, ha concluso Bill Hare, ceo di Climate analytics e negoziatore di lungo corso, a proposito della possibilità di trovare un’intesa sull’accordo per la finanza climatica In ogni caso, la proposta, che rispecchia il punto di vista dell’Arabia Saudita – continua Hare – non è un’opzione ‘prendere o lasciare’ ma è probabilmente soltanto la prima di due o addirittura tre proposte. Proprio come la proposta iniziale dello scorso anno, che fu sonoramente respinta, questo Piano è vuoto per quanto riguarda la mitigazione, gli sforzi per ridurre le emissioni, e eliminare completamente l’uso di carbone, petrolio e gas”.
Volendo guardare in positivo siamo davanti comunque ad un nuovo obiettivo collettivo per il finanziamento climatico, che sostituirà il precedente impegno di 100 miliardi di dollari annui. Il “Baku Initiative for Climate Finance” mira a mobilitare risorse da istituzioni finanziarie globali e settori privati per sostenere progetti di resilienza climatica e transizioni energetiche nei paesi vulnerabili.
La COP29 ha anche avviato l’operatività del fondo per le perdite e i danni, destinato ad aiutare le nazioni più colpite dagli impatti climatici. Tuttavia, i dettagli sull’implementazione rimangono oggetto di negoziazioni.
I paesi vengono esortati a presentare entro il 2025 nuovi piani nazionali più ambiziosi per ridurre le emissioni, con un focus sulla transizione dal carbone alle energie rinnovabili e sulla riduzione delle emissioni di metano.
Per la prima volta, alla COP29, inoltre, una giornata dedicata alla digitalizzazione ha esplorato il ruolo della tecnologia nella lotta al cambiamento climatico, promuovendo soluzioni sostenibili per la gestione delle risorse energetiche e delle emissioni.
In effetti, la COP29 ha evidenziato divisioni politiche significative, con dibattiti accesi su come distribuire responsabilità e risorse tra i paesi sviluppati e in via di sviluppo. Inoltre, l’impegno collettivo prospettato non è certo sufficiente a mantenere l’obiettivo di 1,5°C, secondo l’analisi dei dati più recenti. Sintetizza Jennifer Morgan, inviata per il clima della Germania, dopo essere stata per anni leader di Greenpeace international: “Non siamo ancora in porto, ma almeno non siamo in mare aperto senza una bussola. Stiamo lavorando con i Paesi amici di tutto il mondo, in particolare con i più vulnerabili, per garantire un risultato ambizioso ed equo”.
Un dato positivo è che non è passata, grazie al Cielo, la linea di un netto arretramento di cui si era fatta portavoce purtroppo proprio l’Italia con la premier Giorgia Meloni che nel suo intervento ha sostenuto: È “prioritario che il processo di decarbonizzazione prenda in considerazione la sostenibilità dei nostri sistemi produttivi e sociali. La natura va difesa con l’uomo al centro. Un approccio troppo ideologico e non pragmatico su questo tema rischia di portarci fuori strada verso il successo. La strada giusta è quella della neutralità tecnologica, perché attualmente non esiste un’unica alternativa all’approvvigionamento da fonti fossili”. Insomma un dietro front rispetto alla riduzione drastica delle emissioni decisa nei precedenti appuntamenti internazionali a partire dalla COP di Parigi del 2013, che Giorgia Meloni ha giustificato con una sorta di realismo, che tuttavia – a parere di chi ritiene urgente proseguire nel passaggio a energie non inquinanti – poi si scontra con la realtà dei cambiamenti climatici.
La presidenza azera ha enfatizzato da parte sua la necessità di azioni più decise per evitare “decisioni al buio”, sottolineando il valore della trasparenza e della collaborazione globale che a suo dire si è raggiunta in questa COP29 che tuttavia ha certamente rappresentato un rallentamento nel processo multilaterale per affrontare la crisi climatica, mentre resta la necessità di un impegno più forte e concreto per raggiungere gli obiettivi globali.
Irina Smirnova
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