Nel corso degli anni la giurisprudenza ha affrontato numerose volte le dispute tra azienda e datore di lavoro, riguardanti la contestazione del licenziamento. La legge, come sappiamo, prevede più tipologie di recesso e – in particolare – quella disciplinare accorpa una serie di casi pratici, che possono portare all’interruzione dell’esperienza di lavoro per il venir meno dell’elemento della fiducia.
Molestie, mobbing, aggressioni fisiche, sottrazione di beni aziendali e non solo: in una pluralità di situazioni l’azienda può tutelarsi e licenziare il dipendente non rispettoso degli obblighi di diligenza, lealtà e buona fede e delle più elementari regole di convivenza civile. Oggi – con la diffusione di massa dei social network – è molto facile esprimere la propria opinione su un vasto insieme di argomenti, e anche il proprio ambiente di lavoro può diventare il “bersaglio” di critiche, commenti pepati o vere e proprie accuse in formato digitale.
Recentemente la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata sull’impugnazione di un licenziamento, affermando che non può essere allontanato dall’ufficio o altro luogo di lavoro, il dipendente che – su un social come Facebook – si rende autore di offese scritte ai danni del proprio datore di lavoro. Ma questo ad una condizione ben precisa.
Scopriamo qual è, vedendo insieme i fatti della controversia e la decisione dei giudici di piazza Cavour nell’ordinanza n. 26446 di poche settimane fa.
Il caso
Il caso da cui prende le mosse la decisione della Suprema Corte, riguarda una donna che aveva scelto di contestare in tribunale il licenziamento disciplinare nei suoi confronti. L’azienda aveva ritenuto opportuna la più pesante sanzione, in considerazione del fatto che la dipendente si era resa autrice – sul proprio profilo FB – di frasi denigratorie, offensive e diffamatorie nei confronti della società datrice e, in particolare, del suo amministratore delegato. Alla donna veniva contestata sia l’insubordinazione (uno dei casi di licenziamento in tronco), che la diffamazione a mezzo social network.
Dopo un primo grado non favorevole, la donna andò in appello. Qui i giudici ritennero fondata le sue richieste, sul presupposto che il commento – un post su internet – era stato scritto a seguito della rabbia determinata da un fatto ingiusto e illecito, causato da altri. Nel dettaglio, la donna aveva preso di mira gli infortuni verificatisi a seguito dalla fuoriuscita di sostanze nocive in una sede dell’azienda in cui lavorava. La contaminazione aveva coinvolto anche il marito, rimasto intossicato insieme ad altre persone.
Come si può leggere nell’ordinanza n. 26446, la dipendente lavorava infatti in una palazzina che – oltre a essere sede di lavoro dei dipendenti amministrativi – ospitava un impianto di potabilizzazione. In precedenza il personale aveva più volte denunciato i rischi per la salute, senza però ricevere un’adeguata risposta. Ne seguirono così prima l’evento lesivo e poi i pesanti commenti della donna su Facebook.
Si legge nel provvedimento della Corte che, a seguito di tale episodio, il quale era stato preceduto:
da una lunga serie di doglianze da parte dei lavoratori riguardanti la salubrità dell’area dello stabile
era comparso su Facebook il contestato post che aveva provocato il licenziamento della dipendente.
La sentenza dell’appello annullò il licenziamento, dispose il reintegro della donna in ufficio e dispose in suo favore il riconoscimento di un’indennità risarcitoria e la regolarizzazione della posizione contributiva.
Il rilievo della causa di giustificazione della “provocazione”
L’azienda impugnò la decisione e si andò in Cassazione. Tuttavia l’ordinanza n. 26446 ha – in sostanza -abbracciato le conclusioni del precedente grado di giudizio. Nel suo testo si può infatti leggere che:
- qualora il comportamento di un dipendente costituisca un reato – in questo caso le offese via internet ossia il reato di diffamazione – è onere del giudice del lavoro, anche in mancanza di una sentenza penale, fare luce sull’esistenza del reato stesso in tutti i suoi elementi, ma anche sull’eventuale presenza di cause di giustificazione che possano “salvare” dalla colpa;
- come correttamente affermato dai giudici d’appello, è applicabile anche alla controversie del lavoro la scriminante di cui all‘art. 599 del Codice Penale. Essa impedisce di infliggere la sanzione penale per quei comportamenti attuati come diretta e immediata conseguenza di un fatto ingiusto e illecito altrui.
In particolare all’art. 599 – dall’emblematico titolo “Provocazione” – si trova scritto che:
Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’articolo 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.
Se all’art. 595 si punisce la diffamazione, all’art. 599 si definisce invece una vera e propria causa di esclusione della punibilità, ricorrente quando le parole diffamatorie siano emesse immediatamente dopo aver subito un fatto ingiusto e come sua conseguenza.
Cosa ha deciso la Corte di Cassazione
Per i giudici di piazza Cavour la causa di giustificazione o scriminante ricorre proprio nel caso in oggetto. La donna, provocata dal recente incidente e in preda ad uno stato di stress e turbamento emotivo, si è sfogata subito dopo l’illecito compiuto – l’intossicazione di alcuni dipendenti a causa delle insufficienti misure di sicurezza prese dall’azienda. Per la dipendente, infatti, il danno ai colleghi poteva essere evitato se la situazione di insalubrità dell’ambiente non fosse stata sottovalutata dalla controparte del processo.
Nello specifico, i giudici hanno riconosciuto che il comportamento della lavoratrice, pur offensivo e rilevante disciplinarmente, era riconducibile a uno “sfogo iracondo”, dovuto all’emotività scaturita dalla grave situazione lavorativa e dall’infortunio del coniuge.
Applicando il citato articolo del Codice Penale – e quindi l’esimente della “provocazione” – la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 26446 ha respinto il ricorso proposto dall’azienda contro la sentenza di secondo grado, ribadendo l’infondatezza del licenziamento disciplinare inflitto alla lavoratrice, autrice dei pesanti commenti sul suo profilo Facebook.
La Cassazione ha così ritenuto corretta la decisione dei giudici d’appello, respingendo il ricorso dell’azienda e condannando quest’ultima al pagamento delle spese del giudizio a favore della donna.
Peraltro non sussisteva neanche l’asserita insubordinazione, perché le frasi denigratorie, infatti, non erano da ricondursi all’inosservanza di direttive o a un no all’esecuzione di ordini.
Che cosa cambia
Con l’ordinanza vista sopra, la Corte di Cassazione ha ribadito che ogni disputa attinente al licenziamento rappresenta un caso a sé e va considerata nelle sue circostanze concrete. Inoltre ha stabilito che non è licenziabile il lavoratore subordinato che su Facebook offenda il datore di lavoro. Tuttavia il salvataggio del posto di lavoro è possibile soltanto se l’azione di scrivere commenti offensivi e lesivi sia conseguenza diretta e immediata di un illecito, anteriormente messo in atto dall’azienda stessa.
Come accennato, anche al processo del lavoro è ritenuta applicabile la causa di giustificazione della provocazione, di cui all’art. 599 del Codice Penale. Per questa via, la donna ha conservato occupazione e stipendio.
Al contempo l’ordinanza costituisce un interessante precedente giurisprudenziale, su temi sempre caldi e delicati come il licenziamento disciplinare, le reazioni emotive, gli sfoghi dei lavoratori e l’utilizzo dei social e dei siti web per esprimere commenti, positivi o negativi, sull’operato della propria azienda.
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