La goccia che fece traboccare il vaso fu una tabella oraria che le imponeva di svolgere le quattro ore del suo part time spezzettate fra mattina e pomeriggio, in un reparto per il quale tra l’altro non aveva il titolo necessario e che quindi svolgeva con un senso di inadeguatezza perché impossibilitata a rispondere alle richieste dei clienti; quando tornò a casa in un profondo stato di agitazione e di nervosismo, tentò un gesto anticonservativo. Prima di arrivare a questo drammatico esito nell’ottobre 2021, fortunatamente sventato dal tempestivo intervento del marito, l’impiegata di un grande centro commerciale cuneese avrebbe subito mesi di vessazioni, insulti e ritorsioni per comportamenti che la nuova direttrice giudicava sbagliati. Ora quest’ultima donna è a processo con l’accusa di maltrattamenti.
“Ero alle casse e al box informazioni con un ruolo di responsabile perché amo il mio lavoro e l’ho sempre fatto nel migliore dei modi”. Da quando la nuova direttrice aveva assunto la guida del centro commerciale erano però iniziati i problemi con lei e con molti altri colleghi: “Mi portava a credere che fossi sbagliata, mi faceva sentire piccola e umiliata”. Poi c’erano le ingiurie, contro il collega sindacalista che lei definiva ‘faccia di m…, non mettetelo più con la faccia rivolta verso di me’ o la collega molto magra che veniva sempre chiamata ‘la secca’. “Diceva che eravamo dei dementi, dei falliti che non sapevano fare il loro lavoro – ha raccontato la donna in aula -. In molti si sono dimessi e ogni volta che uno lasciava lei diceva che un’altra mela marcia era stata fatta fuori”.
C’erano poi le velate minacce, come quella fatta riferire dai capireparto che tutti i dipendenti avrebbero dovuto servirsi in un determinato bar del centro commerciale, “altrimenti saremmo finiti a fare tutti i turni di domenica o quelli serali della chiusura. La stessa pressione per farci prendere la carta prepagata per fare la spesa al centro commerciale. Io non la volli, non volevo sentirmi obbligata a fare la spesa dove diceva lei e i capi reparto vennero a dirci che avremmo dovuto farla lo stesso sennò…”.
Forse questo atteggiamento non remissivo, oppure il fatto che si fosse iscritta al sindacato per cercare di trovare una soluzione a quell’atmosfera di tensione che si era creata fra i dipendenti, la portò a dover accettare spostamenti di reparto, anche in luoghi per i quali lei non era titolata, con un crescente senso di inadeguatezza e di frustrazione. A giugno venne ripresa perché aveva lasciato la postazione alla cassa, in quel momento senza clienti, per smaltire il lavoro che intanto si era creata al box informazioni: “Aveva detto a una collega di darmi il cambio e pretendeva che stessi in cassa anche se non c’erano clienti. Per lei stare in cassa era una punizione, spesso diceva ‘quella la faccio morire in cassa’ o frasi simili”.
Un clima di paura e disagio che aveva indotto molti colleghi a licenziarsi e quelli rimasti a non avere il coraggio di sottoscrivere una lettera di proteste da presentare tramite il sindacato o a non partecipare allo sciopero indetto quando si era diffusa la notizia del suo ricovero in ospedale. “Prima di allora non avevo mai preso antidepressivi, ma da giugno a ottobre non riuscivo più a dormire, a casa piangevo in continuazione, alcuni miei colleghi prendevano i calmanti prima di iniziare il turno”. Al processo la donna si è costituita parte civile e con lei la Cisl. L’udienza è stata rinviata per ascoltare i testimoni dell’accusa.
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