La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28999 dello scorso 11.11.2024, si è pronunciata sui motivi dell’indetraibilità dell’Iva, in caso di fatture emesse a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti.
Così testualmente la Suprema Corte di cassazione: “L’operazione soggettivamente inesistente si configura, sia quando l’emittente della fattura non sia un soggetto passivo di imposta, sia quando la falsità delle fatture riguarda operazioni avvenute tra soggetti diversi da quelli che hanno evidenza cartolare nella fattura. Segnatamente, nel caso in cui l’Amministrazione ritenga che la fattura attenga ad operazioni solo soggettivamente inesistenti, e cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente sia stato realmente destinatario), la detraibilità dell’IVA deve essere, in linea di principio, esclusa, venendo a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione, costituito dall’effettuazione di un’operazione ai sensi dell’art. 19, comma 1, D.P.R. 633/72, presupposto da ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione. In tale caso, infatti, come evidenziato da questa Corte, l’imposta viene versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta, in quanto le fatture sono emesse da un soggetto che non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, ritenute inesistenti. In sostanza, in caso di emissione di fattura per operazioni inesistenti, l’IVA versata (come previsto dall’art 21, comma 7, DPR 633/72) alla non genuina controparte, va considerata (proprio per le finalità del complessivo sistema IVA) come “fuori conto”, e cioè “isolata” dalla massa di operazioni effettuate ed “estraniata” dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte” che presiede alla detrazione d’imposta di cui all’19, DPR n. 633/72”.
L’intersezione delle norme del Decreto Iva, richiamate in sentenza dal giudice di Cassazione, non prospetta un chiaro nesso di interdipendente coerenza, anche se i passi della scansione ermeneutica che la Suprema Corte intenta sono giuridicamente corretti. Appare, però, necessario un’analisi più rigorosa a riguardo della dinamica Iva correlata alle operazioni inesistenti.
Per chi scrive, il corredo normativo non può che dipartire dall’articolo 21, D.P.R. 633/1972, dove i disallineamenti di coerenza appaiono vistosi. L’articolo 21, D.P.R. 633/1972, connota la fattura non attraverso una definizione qualificatoria (del tutto mancante) e neppure sulla base di una definita struttura grafica della medesima (dal momento che essa può assumere una variegata rappresentazione grafica, “anche sotto forma di nota, conto, parcella e simili”). Ai sensi dell’articolo 21, D.P.R. 633/1972, la fattura viene contrassegnata attraverso la descrizione cartolare di un’operazione annoverabile nella casistica delle operazioni indicate ai commi 1 e 6, dell’articolo 21, D.P.R. 633/1972, con l’accompagnamento informativo delle indicazioni prescritte nel comma 2, del medesimo articolo (“la fattura contiene le seguenti indicazioni”). Più specificamente, il comma 1, dell’articolo 21, D.P.R. 633/1972, dispone che per ciascuna operazione imponibile deve essere emessa una fattura, mentre il comma 6, raccorda l’emissione della fattura a determinate tipologie di operazioni precisate con criterio tassativo.
Il documento fiscale contrassegnabile come fattura risulta, quindi, coordinato dalle indicazioni dei citati commi. Il comma 7, dell’articolo 21, D.P.R. 633/1972, nel prevedere testualmente che se il cedente o il prestatore emette fatture per operazioni inesistenti, l’Iva è dovuta per l’intero ammontare corrispondente alle indicazioni in fattura, espone una prescrizione intrisa di incoerenza, dal momento che se l’operazione è inesistente non appare di alcun significato correlarla ad un cedente o prestatore, ma soprattutto quel documento non si contrassegna fiscalmente come una fattura (proprio in quanto la fattura non riassume la connotazione di un generico documento, venendo legislativamente correlata alla sola casistica delle operazioni di cui ai commi 1 e 6 , D.P.R. 633/1972, il cui tenore letterale non si presta ad essere equivocato: comma 1 “la fattura deve essere emessa per ciascuna operazione imponibile”, comma 6 “la fattura deve essere emessa anche per le tipologie di operazioni sottoelencate” il cui inventario chiude il novero delle operazioni che partecipano alla qualificazione del documento alla stregua di “fattura”). Il comma 7, dell’articolo 21, D.P.R. 633/1972, si deve, quindi, ritenere che contrassegni convenzionalmente come fattura un documento che altrimenti non si approprierebbe di tale prerogativa. Si tratta, però, di una fattura asimmetrica sul piano delle funzioni, in quanto obbliga l’emittente a versare l’Iva, ma non immette il ricevente nel diritto a fruire della detrazione, in quanto, in unione con il passo della sentenza, chi emette tale fattura non è legittimato, ai sensi dell’articolo 18, D.P.R. 633/1972, ad esercitare la rivalsa (la norma la raccorda infatti ad effettive cessioni di beni o prestazioni di servizi) e per chi la riceve l’Iva è indetraibile, in quanto non descrive alcuna Iva addebitata a titolo di rivalsa in relazione a beni e servizi acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione.
Ora, se lo scrutino venisse arrestato a tale livello di verifica normativa, la sentenza in commento non può che apparire corretta e fondata la causalità giustificativa addotta dal giudice di Cassazione a copertura dell’indetraibilità dell’Iva connessa all’operazione non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente inesistente. Tuttavia, non può non venire in risalto che l’Iva non è asimmetrica, in quanto partecipa della sua fisiologica dinamica impositiva il carattere neutro della medesima e, inoltre, trattasi di un’imposta sui consumi, per cui per poter riassumere una tale caratterizzazione fiscale essa non può dissociarsi dal fatto generatore che la tipicizza costituito da effettive cessioni di beni ed effettive prestazioni di servizi destinate ad un consumo finale goduto dai c.d. incisi di fatto (i soggetti privati che con il consumo esternano l’indice di ricchezza alla base del presidio costituzionale della capacità contributiva). E allora, nonostante la connotazione convenzionale di Iva connessa alle operazioni inesistenti, ai sensi dell’articolo 21, comma 7, D.P.R. 633/1972, trattasi di un’Iva causalmente ermetica che apparirebbe più appropriato contrassegnare come una sanzione impropria. Ma tale catalogazione, a seguito dalla riforma delle sanzioni del 1997 e della specifica previsione in essa contenuta che abrogava tutte le sanzioni (incluse, quindi, anche quelle di natura impropria) non ribadite nella riforma medesima, avrebbe determinato l’abrogazione implicita anche dell’articolo 21, comma 7, D.P.R. 633/1972, già allora presente nel Decreto IVA.
L’attrazione sforzata alla natura di Iva, implica che, in qualche modo, essa debba ripristinare la sua natura neutra, per cui nel caso l’Iva non venga detratta da chi riceve tale atipica fattura o essa venga ripresa in sede accertativa, esaurita l’insidia per l’Erario di un esercizio della detrazione non correlato ad un corrispondente versamento , essa si risolve in un indebito arricchimento dell’Erario ed insorge il diritto restitutorio nei confronti dell’emittente nel caso l’abbia versata se non spontaneamente in sede di verifica. Delle due l’una: o è una sanzione (come chi scrive ritiene si connoti) e allora l’articolo 21, comma 7, D.P.R. 633/1972 è incorso nell’abrogazione implicita, o la sua natura è quella dell’Iva e allora la sua dinamica impositiva deve ripristinare la prerogativa fiscale della neutralità.
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