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Foggia. “Ho fatto arrestare i mafiosi che mi hanno chiesto il pizzo. Lo Stato mi ha abbandonato” – #finsubito prestito personale immediato – Richiedi informazioni


FOGGIA – Per otto anni Giacomo Di Foggia è stato il bancomat della mafia foggiana. Dal 2012 al 2020 ha erogato fino a 50.000 euro al mese, complessivamente circa 5 milioni.

Un giorno, costretto a cedere alcuni attrezzi dell’azienda per pagare i suoi estorsori, acconsentì alla vendita di un’imponente macchina agricola per un decimo del valore: di quei soldi non vide neanche l’ombra, passarono dall’acquirente direttamente agli strozzini.

Quand’è cominciato tutto?
«Non c’è stato un preciso momento».

In che senso?
«Il credito agricolo negato per cavilli tecnici, le banche che chiudono i rubinetti tutte insieme, gli incassi che diminuiscono e i fornitori che ti aggrediscono per farsi pagare. Si creano le condizioni per abbandonarsi a scelte sconsiderate, cominci a pensare che l’unica soluzione sia affidarsi alle mosche che ronzano intorno… ».

Chi le ronzava intorno?
«Persone che in quei drammatici momenti ponevano domande strane ma coerenti: “Giacomo, hai bisogno di qualcosa? Noi possiamo aiutarti, per qualsiasi cosa non esitare”».

E lei?
«Io dovevo mandare avanti l’azienda, avevo bisogno di soldi. Così le mosche sono diventate avvoltoi, sciacalli».

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Quando li ha denunciati?
«Luglio 2020».

Perché così tardi?
«Bisogna essere davvero consapevoli di quello a cui si va incontro. Dopo la denuncia si scatena un fulmine, la luce si vede ovunque ma il rumore rimane solo dentro di te».

Le persone che ha denunciato ora sono in carcere?
«Due sì (i coniugi Tommaso Martino e Costanza Pia Diamante, ndr), per gli altri sono in corso indagini coordinate dalla Dia».

Per questo vive sotto scorta?
«Da tre anni. Eccoli – indica gli agenti fuori dall’ufficio -, mi seguono ovunque».

Teme per la sua vita?
«Certo, anche adesso che sono qui con lei».

E per quella dei suoi familiari?
«Per mia moglie. Non abbiamo figli, non credo sarei riuscito a perdonarmi di fargli fare una vita così».

Cosa le causa più dolore?
«La solitudine che scavano intorno… ».

Si spieghi meglio.
«Calunnie, reticenze, umiliazioni indotte dall’indifferenza. Quand’ero sotto estorsione per necessità giravo con un trattore malmesso, la gente qui in paese mi rideva dietro. Ero diventato lo scemo del villaggio, non quello al quale dei criminali avevano tolto tutto. Nessuno mi ha mai messo una mano sulla spalla chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa. Scavano una trincea intorno, e tu ci affoghi».

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Veniamo all’isolamento istituzionale.
«Il più crudele».

Se pagava il pizzo non poteva certo pagare lo Stato.
«Sono stato costretto a sopravvivere, a pagare i miei carnefici e non le tasse».

Dopo aver denunciato la mafia, ora il suo nemico principale è chi avrebbe dovuto proteggerla.
«Ho maturato 700 mila euro di debiti con lo Stato, che nel frattempo ha pignorato tutto ciò che poteva. Sa qual è l’umiliazione più feroce di tutta questa storia?»

Quale?
«Il fatto che lo Stato, riconoscendo me e mia moglie vittime dell’usura, ci ha risarciti rispettivamente con 69 mila e 23 mila euro. Da una parte riconosce un indennizzo per ciò che stiamo passando, dall’altra pignora tutti i conti con cui dovremmo mandare avanti l’azienda… ».

Ha chiesto la sospensione dei debiti con lo Stato?
«Certo che l’ho fatto, ma non avrei dovuto pensarci io. Avrebbe dovuto essere un fatto automatico, naturale. Lo prevedono i commi 1, 3 e 4 dell’articolo 20 della legge sull’usura, con cui la Prefettura impone allo Stato la sospensione degli adempimenti fiscali e l’interruzione di ogni efficacia esecutiva. Invece ogni volta siamo punto e a capo, e io sono costretto a vergognarmi di quello che ho subito, a spiegare che evadere il fisco è stata “sopravvivenza” e non “scelta”».

Tornasse indietro, rifarebbe tutto?
«Non so rispondere… ».

Cos’è per lei la terra?
«Tutto. Sono me stesso solo in mezzo ai campi, l’unico posto in cui torno a essere un uomo».

Ha ancora fiducia nelle istituzioni?
«La Dia di Bari (indagini coordinate dalla pm Bruna Manganelli, ndr) è stata eccezionale, mi ha seguito in ogni momento dell’inchiesta. Per il resto pochissimo, anzi niente. Mi sento abbandonato dallo stesso Stato che prima mi ha chiesto di farmi coraggio, poi mi ha lasciato solo. Io ho denunciato, ma la mia vita è rimasta impigliata nei meccanismi che impediscono qualsiasi ripartenza, qualsiasi rivalsa sociale».

Per esempio?
«Non ho potuto accedere a dei ristori economici che mi spettavano per legge perché non ho presentato la denuncia dei redditi nel 2017, quand’ero nel pieno del mio calvario. O pensavo a sopravvivere, o pensavo alla dichiarazione dei redditi. E che senso aveva presentarla, se non potevo pagarla?».

E negli uomini, ha ancora fiducia?
«Ogni tanto me la impongo, per non impazzire. Ma non conosco un prefetto, un questore, un uomo delle istituzioni che mi abbia detto guarda che qui ci siamo noi… ».

Ha mai fatto cattivi pensieri?
«Due volte, ma il mio corpo si è rifiutato anche di morire».

E di andare via da qui?
«Questo è l’unico posto in cui sento di avere una missione».

La sua storia andrebbe raccontata nelle scuole, il suo coraggio trasmesso ai ragazzi?
«Non ci avevo mai pensato… ».

Speranza, lo dica con un’altra parola?
«Non mi viene, mi sono disabituato».

Cosa non riesce a dimenticare?
«Mentre vendevo quella macchina per pagare i miei estorsori, nascosto in un angolo c’era anche mio padre. Mi guardava deluso, come fosse colpa mia. Quello sguardo è l’ultima immagine quando chiudo gli occhi, la prima quando li riapro».

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Qual è la forza di chi sopravvive?
«Essere pericoloso, chi subisce un danno sa di potercela fare».

Lo riporta foggia.corriere.it



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