All’operazione-verità messa in piazza dagli scioperi di Cgil e Uil e dei sindacati di base sull’austerità della prossima legge di bilancio, Giorgia Meloni ha reagito confondendo le mele con le pere. A Bari per firmare il Patto per lo sviluppo e la coesione con la Puglia ha presentato il cofinanziamento dei fondi Ue (45 miliardi in più anni) come la somma di 4 finanziarie. In realtà, il cofinanziamento è dovuto, mentre la manovra non stanzia investimenti e taglia 12 miliardi alla spesa sociale.
I fondi di cui ha parlato Meloni non sono una concessione. Sono dovuti, visto che ritornano in Italia dopo essere passati da Bruxelles. E non c’entrano con la manovra che, semmai, garantisce il co-finanziamento di fondi che avrebbero dovuto arrivare anni fa. Se, invece, consideriamo quanto ha stabilito il governo si nota che i veri finanziamenti non stanno nella manovra, ma nel piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che è una tantum ed è in scadenza tra un anno e mezzo. È stato speso realmente solo il 26% degli oltre 194 miliardi di euro piovuti da Bruxelles. Il resto dovrebbe essere speso tutto entro un anno e mezzo: giugno 2026.
ANCORA IERI C’ERA CHI nella maggioranza, Fabio Rampelli (Fratelli d’Italia) ad esempio, lo ha dato per certo. Come spesso accade ha confuso le rate stanziate dalla Commissione Europea – è arrivata la sesta – con la spesa effettiva. In realtà il governo è in ritardo e sa che non riuscirà a spendere tutti i fondi. Spera che Raffaele Fitto, l’ex ministro delegato alla rogna oggi vicepresidente della Commissione Ue, riesca a convincere la Germania e i suoi satelliti a rinviare la scadenza inderogabile.
I SOLDI DEL PNRR finiranno e dopo non c’è più niente. I fondi di coesione andranno spesi anch’essi, anche se l’Italia non riesce a spenderli tutti. E la manovra, come le prossime, non avrà le risorse per fare investimenti. Perché, ed è questo che le piazze sindacali hanno detto ieri, il governo Meloni ha firmato il nuovo patto di stabilità che imporrà tagli e austerità nei prossimi sette anni.
Ciò che è stato difficile fare passare nelle ultime settimane nel dibattito pubblico italiano è che la manovra di quest’anno non è solo un esercizio ragionieristico, come si sente ripetere anche nei talk show «progressisti». Per parlare di manovra, bisognerebbe almeno leggerla. Si può capire che il governo faccia finta di niente e induca la sua maggioranza a fare bolle di sapone con le parole. Se però lo fanno anche i suoi oppositori, allora è preoccupante.
GLI ARTICOLI 104 E 119 del disegno di legge bilancio, ora all’esame del parlamento, prevedono da quest’anno tagli da 7,7 miliardi ai ministeri. Questo significa 702 milioni di tagli all’università e alla ricerca in tre anni, per esempio. Oppure il blocco del turn-over al 75% nella pubblica amministrazione. Senza contare gli enti locali che perderanno, tutto compreso, 5,6 miliardi nei prossimi anni. Questo significa: riduzione della spesa sociale, ridimensionamenti dei servizi essenziali a cominciare da quelli di prossimità: asili nido, trasporto pubblico locale, welfare. Aumenteranno le tasse locali mentre, a livello nazionale, il governo continuerà a recitare la litanìa del «meno tasse per il ceto medio» con il taglio del cuneo fiscale.
Uno degli elementi interessanti dei discorsi fatti ieri tra i sindacati è stata la contestazione di questo meccanismo che occupa più di 10 miliardi di euro sui 28 della manovra. Secondo la Cgil questa misura è «una grande partita di giro» a saldo zero. Quest’anno lavoratori e pensionati pagheranno oltre 17 miliardi di Irpef in più. «Si tenta di vendere come nuovo sostegno ciò che nuovo non è. È la conferma della vecchia decontribuzione voluta dal governo Draghi che è stata fiscalizzata. La stragrande maggioranza non vedrà un euro in più. Anzi, come ha detto l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, con il «nuovo» taglio del cuneo 800mila lavoratori rischiano di perderci.
LO SCONTRO IN ATTO, almeno fino all’approvazione della manovra, sarà sulle scelte di politica economica presentate da Palazzo Chigi e dal ministero dell’Economia come scelte tecniche. In realtà sono politiche. L’alternativa sta nel porre il problema di un patto di stabilità capestro che fa il contrario di ciò che dovrebbe fare l’Europa; quello delle spese militari che aumentano a danno di quelle sociali. E le grandi imprese che continuano a macinare mega-profitti, a cominciare dalle banche.
In Italia sarà introdotta «una carestia programmata» ha detto ieri il segretario generale della Cgil a Palermo Mario Ridulfo. Espressione forse enfatica che coglie un punto sostanziale. È una vecchia legge tornata d’attualità: chi paga l’austerità è il lavoro povero. roberto ciccarelli
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