Gi italiani non brillano per competenze digitali. Tutt’altro: secondo il DESI, (Digital Economy and Society Index) l’Italia si colloca al 18esimo posto fra i 27 Stati membri dell’UE. Solo il 42% degli italiani possiede competenze digitali di base e il 55% delle aziende segnala difficoltà nel trovare specialisti ICT adeguati. «I tempi dell’innovazione, quelli di adozione di una nuova tecnologia sono diventati molto più ristretti rispetto al passato» dice Federico Rajola, Professore ordinario di Sistemi e Processi decisionali presso l’Università Cattolica di Milano.
Non si fa in tempo a studiare una nuova tecnologia, che già ne è uscita una nuova
«È così e lo sarà sempre di più. Basti pensare a radio e televisione, fare un confronto con l’esplosione di Internet. Il periodo di adozione è stato molto più corto con il web. Con la digital transformation c’è una velocità a cui non eravamo abituati, e nonostante si riscontrino miglioramenti sul piano culturale, dall’altro lato non si rileva una corrispondente velocità nell’apprendimento da parte delle persone. Il risultato è che la domanda di competenze digitali in Italia è in continua crescita. Il nostro Paese, insieme alla Spagna, esprime la più alta richiesta di professionisti nel settore».
Anche i corsi di aggiornamento, per mettersi al passo con i tempi, sono diventati una rincorsa continua
«Per un’azienda di oggi il ciclo di vita di un percorso formativo è passato da una media di cinque anni a tre. Serve una perenne rigenerazione delle competenze per usufruire al meglio delle innovazioni. Per non parlare dell’intelligenza artificiale generativa, che richiede un percorso di aggiornamento e apprendimento costante».
L’avvento di questo tipo di tecnologie può portare una rivoluzione che destabilizzerà le fondamenta del Mercato del lavoro?
«Il cambiamento sarà radicale. Un primo passaggio è legato all’incremento del livello di efficienza, il che significa che non è che si sostituiranno le persone, ma si avrà la possibilità di fare meglio determinati processi aziendali, che diventeranno così più efficienti. Tanto per esemplificare, se prima si faceva una presentazione aziendale e si impiegavano per ultimarla x ore, adesso ci vorrà molto di meno. Il secondo effetto è che cambieranno i modelli di business. Questo perché le nuove tecnologie consentono di svolgere attività che prima non potevano essere svolte. Anche qui farò un esempio semplice: i chatbot che interagiscono con un corso di laurea, che prima non esistevano. Oppure i processi di verifica del controllo frodi bancarie e assicurative. Tutto il tema della cybersecurity, in sostanza».
Sono i temi che affrontate anche nel master che lei dirige
«Sì, già nel titolo sono indicate le materie. Il corso è appunto in Financial Innovation, incentrato su FinTech, AI, Blockchain, Cybersecurity e Metaverso. La necessità che si riscontra è quella di formare figure professionali che si approprino delle competenze che il Mercato richiede. Parliamo di intelligenza artificiale, Blockchain, cybersecurity, Metaverso e token economy, big data e advanced analytics, digital marketing e digital business. Nel master cerchiamo di applicare i contenuti dell’innovazione al settore finanziario. Quindi insegnando a individuare quali sono le tecnologie più appropriate e come implementarle. L’obiettivo è creare esperti che colmino il digital gap proiettandolo verso i tre anni successivi».
Per un ragazzo che entra adesso all’università e deve studiare materie improntate all’innovazione tecnologica il rischio è che – una volta usciti dal percorso accademico – si sia punto a capo. Come si fa a restare al passo con i tempi?
«Si deve tenere in considerazione che i tipi di apprendimento sono almeno due. Da una parte c’è quello didattico e formativo, dunque l’insieme degli strumenti teorici, che vengono insegnati e si studiano, e servono per rimanere aggiornati nel tempo. Sull’altro fronte va invece allenata la curiosità e la capacità di interpretare i fenomeni. La questione è tutta sul metodo. Anche i ragazzi devono interessarsi a quanto accade intorno a loro, non possono basarsi solo sull’apprendimento del momento».
Una speranza arriva anche dal PNRR. Il 25,1% del totale, circa 48 miliardi di EUR, è destinato alla transizione digitale. Può fare la differenza?
«Sicuramente, anche perché il piano italiano è il più ampio dell’UE, per un valore totale di circa 191,5 miliardi. Si occupa anche dello sviluppo delle competenze digitali, con misure volte a migliorare le conoscenze di base della popolazione, ad aumentare l’offerta formativa a livello più avanzato, a riqualificare la forza lavoro e a migliorarne le competenze».
Nello specifico, come cercate di orientare i ragazzi che frequentano il master affinché si trovino preparati ad affrontare il mondo del lavoro?
«In un contesto di open innovation è imprescindibile la conoscenza dei nuovi player digitali. Sui temi relativi a Fintech, Insurtech e Regtech, gli studenti hanno la possibilità di formarsi attraverso casi pratici e testimonianze italiane e internazionali. Realizziamo anche progetti con cui gli allievi possono mettere in pratica le proprie abilità imprenditoriali attraverso specifici laboratori dedicati. Il punto di forza è che il nostro taglio è basato non solo sui contenuti che trasmettiamo, ma anche sulle competenze manageriali da applicare poi ai business di processo».
Il tasso di placement è soddisfacente?
«Sì, anche perché parte integrante del corso è il tirocinio preliminare, per poi saltare direttamente a un posto stabile nel mondo del lavoro. Come percentuale di impiego ci aggiriamo sul 95%. Il motivo non è lunare, del resto: il processo di inserimento è rapidissimo perché il Mercato non riesce a produrre abbastanza laureati o persone dotate di master da soddisfare la tanta domanda e la poca offerta. Di lì, è giocoforza che il posto di lavoro si trovi presto e che i livelli retributivi siano progressivamente in ascesa».
Anche i laureati in materie tecnologiche scarseggiano
«La percentuale degli specialisti digitali nella forza lavoro italiana è inferiore alla media UE e le prospettive per il futuro sono indebolite dai modesti tassi di iscrizione e laurea nel settore delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, ndr). Affinché si consegua l’obiettivo del decennio in termini di competenze digitali di base e specialisti TIC, sarà fondamentale un deciso cambio di passo nella preparazione dell’Italia in materia».
Quali sono i profili professionali più richiesti o quelli che appariranno in futuro in ambito innovazione?
«Se ne possono citare alcuni. Per esempio il Digital Innovation Manager, il Digital Technology Specialist o il Business Data Analyst. Nell’ambito della sicurezza c’è poi il Cybersecurity Analyst e infine il Fintech Startupper o chiunque, in qualsiasi funzione aziendale, sia chiamato a occuparsi di progetti di Digital Innovation. Sono tutte figure che formiamo nel nostro master».
Riscontrate da parte dei giovani una qualche disaffezione nei confronti del mondo del lavoro?
«I tempi sono sicuramente cambiati rispetto, per esempio, alla mia generazione. Io ero abituato a lavorare 20 ore al giorno. I ragazzi di oggi cercano un maggiore equilibrio tra impegni lavorativi e vita privata. Cercano spazi per le relazioni e le amicizie. È un processo di trasformazione che osservo in generale sui laureati di oggi. Esiste però un altro lato della medaglia».
Quale?
«Oggi abbiamo lo smart working, per cui non c’è più l’esigenza di prima, di un consulente che vada dal cliente tutti i giorni. Il bilanciamento con il resto della vita è tangibile, anche se ci sono pro e contro. Il percorso di crescita professionale da remoto ne risente. Mancano socialità e momenti di confronto e di conseguenza è danneggiato anche l’iter della carriera».
Trova ci siano atteggiamenti diversi da parte di uomini e donne nei confronti delle materie STEM? C’è maggiore ritrosia da parte delle ragazze nell’approcciare argomenti ritenuti appannaggio maschile?
«Direi di no. Anche perché nel nostro caso il contributo che cerchiamo di dare non è solo in termini di conoscenze sull’intelligenza artificiale. Lavoriamo anche per capire come organizzare attività interne e progetti di digital innovation, su come fare business legati all’innovazione. Si spazia molto, forse anche per questo non emerge una differenza tra i sessi. E poi oggi, a livello internazionale, ci sono donne protagoniste di incredibili percorsi di innovazione, con grandi carriere».
Il vostro master mette a disposizione anche borse di studio?
«Sì, ce ne sono cinque. Tre a copertura totale, finanziate dal Gruppo BCC Iccrea attraverso BCC Banca Iccrea, BCC Sinergia e BCC Risparmio & Previdenza, per gli studenti che hanno dimostrato di eccellere nei progetti di innovazione legati al territorio. L’opportunità si colloca nell’ambito della più ampia iniziativa denominata BCC Innovation Festival. Due borse di studio a copertura parziale sono finanziate dalla Fondazione Gasbarri di Alleanza Assicurazioni, per gli studenti che si impegneranno a acquisire conoscenze nel settore assicurativo».
Di cosa si occupa invece il CETIF, Centro di Ricerca su Tecnologie, Innovazione e Servizi Finanziari, che lei dirige?
«Il Centro di Ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore da oltre trent’anni realizza convegni, promuove ricerche, eroga corsi e master sulle dinamiche di cambiamento strategico, organizzativo e tecnologico. I nostri settori di interesse sono finanziario, bancario e assicurativo». ©
📸 Credits: Canva Pro
Articolo tratto dal numero del 1° dicembre 2024 de il Bollettino. Abbonati!
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