Sorelle, anzi sorellastre, latine: è dai tempi di Napoleone che la Francia esercita un certo fascino (e una certa grandeur) sull’Italia. È dai tempi di Campoformio che la delusione delle attese e un certo egoismo divide i due Paesi. Che, per questo, sono uniti da una sorta di amore-odio, una rivalità su ogni campo, una primazia di civiltà e talento, uno scontro campanilistico che diventa pop: da Leonardo da Vinci “francese” per la tv transalpina, fino ai diritti sulla sua Gioconda. I tempi, da Bonaparte a Macron, sono cambiati, eccome. Ciò che rimane, però, è la forte, fortissima, presenza francese attorno, dentro l’economia del nostro Paese. L’ultima notizia riguarda i progetti di santa alleanza che unirebbero Generali, un’autentica istituzione finanziaria italiana, ai francesi di Natixis. Ne nascerebbe un colosso paritetico, 50-50 con una governance, ha spiegato il Sole 24 Ore nei giorni scorsi, che propenderebbe verso gli italiani. Almeno all’inizio, poi chissà. Nell’eventuale operazione potrebbero finire coinvolti asset (italiani) per 650 miliardi di euro. Sarebbe, se fosse confermata e concretizzata, un’alleanza di quelle epocali. L’ennesima, sull’asse Roma-Parigi. Come quella che ha tracciato il solco per tutte. Cioè la nascita di Stellantis dalla fusione di Fca (ex Fiat) e Psa-Citroen, avvenuta il 16 gennaio del 2021. Questa è stata, ed è tuttora, la regina delle grandi operazioni tra le sorelle, anzi le sorellastre, latine. Nacque tra le fanfare il quarto produttore al mondo di automobili. Capace di fargliela vedere a tutti. Sta finendo non proprio benissimo, tra crollo degli utili e polemiche, furibonde, sulle strategie del gruppo ritenute troppo sbilanciate verso l’interesse francese rispetto a quello italiano. Non solo Stellantis, però. Si è calcolato che le operazioni di fusione e acquisizione da parte di aziende transalpine nei confronti di imprese italiane, solo tra il 2019 e il 2023, sia stato pari a investimenti per venti miliardi. Praticamente ogni campo, ogni settore economico e produttivo ne è interessato. Dal lusso (con lo shopping di Arnault sui marchi dell’alta moda italiana da Gucci a Fendi e Loro Piana, passando per l’ultimissima “intesa” con Moncler) fino all’innovazione, come Stmicroelectronics (al centro, nei mesi scorsi, di una feroce – e rientrata – polemica col governo che accusava il management a trazione francese di trascurare l’Italia) e Newcleo, la start-up atomica (in tutti i sensi) su cui hanno investito praticamente tutti, a cominciare dagli Elkann, che Macron è riuscito a convincere a lasciare la sede di Londra per aprirne una a Parigi. Pare che, in ballo, ci sia un progetto da tre miliardi di euro. E, soprattutto, a differenza dell’Italia nessun tabù a parlare di energia nucleare. A proposito di energia, sono i francesi di Electricité de France a detenere la maggioranza del capitale dell’italiana Edison.
Ma l’interesse francese nei confronti dell’Italia non è notizia recente. Anzi. Per restare in tempi recenti e senza tornare indietro ai viaggi di Quintino Sella col cappello in mano davanti ai banchieri parigini, basti ricordare la scalata di Vivendi in Tim (detiene ancora il 24,9 per cento delle azioni) e il tentativo da parte del gruppo guidato da Vincent Bolloré di scalare Mediaset. Prima ancora delle telecomunicazioni, però, ad allettare gli imprenditori transalpini sono state le banche italiane. E quando si parla di credito, si entra in un labirinto in cui è facile perdersi. Il grande tema di questi giorni è stata l’Ops lanciata da Unicredit a BancoBpm che, da parte sua, ha in animo di costituire il terzo polo bancario italiano investendo nelle quote Mps dismesse dal Mef, con la benedizione di Giorgetti. Il primo azionista dell’ex Banco popolare milanese è Crédit Agricole che detiene azioni entro il limite (non superato) del 10%, soglia invalicabile senza il consenso della Bce. E sarà proprio a Parigi che Andrea Orcel, ad di Unicredit, si dovrà recare per discutere dell’offerta avanzata su BancoBpm. Le due banche hanno più in comune di quanto le divida. Sono accomunate, infatti, dal fondo di risparmio Amundi, controllata dalla stessa Crédit Agricole e che detiene l’1,3 per cento di Unicredit per conto clienti, e dal fondo di investimento Anima che sarebbe il vero nodo gordiano della vicenda.
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