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La crescita del Mezzogiorno tra investimenti e strategie di sviluppo #finsubito prestito immediato


Si parla da anni, da decenni, di due Italie, del gap sociale, economico ed infrastrutturale che interessa il Nord ed il Sud del Paese. Quest’anno il Mezzogiorno è ancora in vantaggio ma perde terreno e c’è il rischio concreto di un nuovo sorpasso da parte del Settentrione. Il rapporto Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, lo dice chiaramente. Dati alla mano, il Pil al Sud è previsto in aumento dello 0,9% nel 2024 contro lo 0,7% del resto del Paese. Si riduce tuttavia lo scarto di crescita favorevole rispetto al 2023 e c’è il rischio di una crescita più stentata rispetto al resto del Paese nel 2025 e 2026, a causa del rientro dalle politiche di stimolo agli investimenti e di sostegno ai redditi delle famiglie.

E con la manovra la scure si abbatte sul Sud tagliando risorse considerevoli nel triennio 2025-2027. Lo scorso 10 novembre la Svimez ha depositato in Parlamento una memoria con somme e sottrazioni dall’esito impietoso: 5 miliardi e 300 milioni in meno nei prossimi tre anni. Una cifra davvero imponente se si pensa a quanti divari ci sono da colmare e quanto il Paese sconta, ad esempio, l’arretratezza delle infrastrutture in quella porzione di territorio. L’Alta capacità-velocità Napoli- Bari, un collegamento strategico fondamentale perchè unisce Adriatico e Tirreno, sarà completata solo nel 2030. Doveva essere pronta 15 anni fa. Ma il problema di fondo è forse un altro: qual è la visione di sviluppo del Sud? Partendo dai dati e dagli scenari presenti abbiamo cercato di fare il punto con la ricercatrice Svimez, Serenella Caravella.

Secondo l’ultimo rapporto Svimez per il secondo anno il Mezzogiorno cresce più del Centro-Nord ma si riduce lo scarto di crescita. Come mai?

«Secondo le nostre previsioni, il differenziale di crescita tra Nord e Sud a favore del Mezzogiorno che si continua a registra per il 2024 è il risultato di fattori di stimolo della domanda che hanno intercettato in maniera differente i territori. Da un lato, la crescita degli investimenti privati e pubblici, specialmente nelle costruzioni, per effetto di politiche espansive come Superbonus, PNRR e la chiusura del ciclo di programmazione 2014-2020 della coesione hanno sostenuto il ritmo di crescita del Mezzogiorno, area del Paese dove il settore edilizio e il suo indotto industriale sono marcatamente presenti. Sosteniamo, infatti, che siano proprio le costruzioni a trainare l’ottima performance del Sud nel post 2019. Nel resto del Paese si sono verificati effetti di rallentamento che hanno in parte bilanciato la spinta alla crescita determinata dagli investimenti. Il Centro-Nord presenta una matrice industriale più fitta e articolata che ha sofferto la crisi industriale europea, e della Germania in particolare, Paese al quale siamo fortemente legati tramite rapporti di subfornitura. In altre parole, il rallentamento del commercio internazionale ha penalizzato principalmente il Nord e il Centro del Paese, area quest’ultima che sta vivendo la profonda crisi del distretto tessile e calzaturiero. Il trend si inverte nel 2025, dove la crescita del Pil del Sud dovrebbe tornare sotto la media nazionale. il risultato è spiegato dal rientro delle politiche di stimolo agli investimenti privati e di sostegno ai redditi delle famiglie, solo parzialmente compensati dall’impatto positivo degli investimenti del Pnrr».

C’è il rischio quindi di nuovo sorpasso da parte del Nord?

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«Il termine “sorpasso” evoca inequivocabilmente una competizione tra aree che di fatto non c’è. Quando cresce il Mezzogiorno, ne beneficia anche il resto del Paese in ragione della forte interconnessione che c’è tra i due sistemi economici, e quando il Sud cresce più velocemente significa che è in atto un processo di convergenza, che le due aree si avvicinano e il Paese cresce di più. Bisogna necessariamente uscire dalla contrapposizione Nord/Sud e iniziare a pensare il Paese, e il suo futuro, in termini unitari. A questo serve la convergenza. Se dovesse verificarsi quanto previsto dalla Svimez -ossia il ritorno nel 2025 a un ritmo di crescita differenziato a sfavore del Mezzogiorno- significherebbe che il processo di convergenza si è arrestato, ed è quindi fondamentale dare continuità alle politiche espansive e attivare una strategia politica di lungo termine che abbia tra i suoi obiettivi l’ampliamento e il consolidamento della base industriale meridionale, che è il punto di partenza per assicurare continuità e intensità al percorso di convergenza».

Serenella Caravella, ricercatrice Svimez (foto ufficio stampa)

Il lavoro al Sud è in ripresa ma i salari crollano e cresce la povertà. Uno scenario poco positivo. Mi può fare un quadro?

«I salari crollano al Sud e in tutto il Paese. In pratica nel Mezzogiorno si acuiscono le questioni nazionali. Questo processo ha diverse determinanti, ma due sono particolarmente importanti. La prima interessa la composizione settoriale dell’economia italiana. Dal 2008, e nel Sud in particolare, si è verificato un intenso processo di de-industrializzazione mentre è cresciuta la componente del terziario. A crescere tuttavia, sono stati i servizi a più basso valore aggiunto che domandano competenze meno avanzate e pagano salari relativamente più bassi. In letteratura parliamo di “morbo di Baumol”.  Poi c’è una seconda questione: la compressione dei costi, quelli del lavoro in particolar modo, che continua a rappresentare la principale leva competitiva del Paese. Lo scorso anno il rapporto Svimez mostrava che l’Italia ha margini di profitto allineati a quelli delle altre maggiori economie europee grazie, diversamente da questi paesi, a una compressione dei costi particolarmente rilevante sulla componente lavoro. Nel frattempo, l’inflazione galoppante ha ridotto il potere d’acquisto dei salari, esponendo al rischio povertà molte famiglie per le quali le spese per beni alimentari (voce maggiormente interessante dal processo inflattivo) risultano particolarmente onerose. È cresciuta la povertà mentre cresceva l’occupazione, vale a dire che è cresciuto il lavoro povero».

 La fuga dei nostri laureati interessa anche il Sud: in 10 anni in 200mila hanno lasciato il Mezzogiorno. In pratica noi investiamo nella formazione dei ragazzi ma di fatto regaliamo i soldi all’estero. E’ così? Il Sud è una terra solo per vecchi? Come invertire la rotta?

«Ci si sposta dove si trovano migliori opportunità lavorative, e i dati sulle migrazioni dei laureati raccontano proprio questa storia. La domanda di lavoro nel Mezzogiorno non è tale da offrire prospettive allettanti per chi possiede competenze avanzate, e spesso, si verifica che i pochi posti di lavoro stabili e ben retribuiti sono occupati da soli uomini. Ad esempio, per le professioni che richiedono competenze STEM, relativamente meno domandate nel Mezzogiorno per effetto della composizione settoriale dell’economia sbilanciata su terziario a basso valore aggiunto, si registra un marcato divario di genere a sfavore delle donne. Vale a dire che, oltre a un mercato del lavoro attrattivo sono necessarie altre condizioni per conferire attrattività a un territorio. I servizi, ad esempio, come quelli necessari per la cura e la conciliazione, la cui presenza e capillarità sul territorio è determinante per il successo lavorativo specialmente delle donne. Su quest’ultime, per fattori culturali ancora radicati nel nostro Paese, ancora ricade gran parte del carico del lavoro di cura. Nel 2022, delle oltre 15mila donne che hanno lasciato il Sud per il Nord, il 67% è in possesso di un titolo di laurea (la % scende al 49% per gli uomini)».

La legge di bilancio taglierà, secondo le stime di Svimez, le risorse destinate al Sud di circa 5,3 miliardi di euro nel triennio 2025-2027. Questo che cosa significherà per il Sud in termini economici ma anche di lavoro?

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«Stimiamo un effetto negativo sul PIL del 2025 di circa 0,2 punti, risultano a rischio oltre 25mila posti di lavoro».

Il Rapporto Svimez descrive come “decisivo” per la crescita del Mezzogiorno il ruolo del Pnrr. In che senso? Quanto vale il Piano in termini di Pil?

«Il Pnrr, come ampiamente illustrato nei precedenti punti, è il traino della crescita del Pil nel triennio 2024-2026. Rappresenta oltre il 70% della crescita del Mezzogiorno, vale a dire che gli investimenti attivati dal Piano generano un effetto sul PIL che vale 1,9 punti di PIL. Questo perché l’economia del Mezzogiorno trova nell’edilizia una specializzazione strategica e, in secondo luogo, il settore delle costruzioni è in grado di attivare un indotto industriale in gran parte localizzato nelle regioni meridionali. Il contributo del PNRR scende al 50% del Centro-Nord (1.5 punti di PIL), area del Paese in cui sono presenti anche altri settori».

In generale come evitare che si torni indietro, cioè a quel famoso gap tra Nord e Sud che ha sempre caratterizzato l’Italia? Quali politiche attive mettere in campo?

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«Serve un cambiamento strutturale dell’economia: meno B&B e più R&D. L’industria, e i servizi avanzati che vi gravitano attorno, producono oltre il 70% delle spese in ricerca e sviluppo. In questa prospettiva, bisogna mettere al centro la politica industriale attiva, e fare leva su strumenti selettivi orientati a rafforzare e promuovere filiere strategiche necessarie a intercettare gli obiettivi delle transizioni e dell’autonomia europea. Bisogna anche preservare quello che c’è, a partire dell’automotive. È un settore cruciale per il manifatturiero italiano e meridionale, è necessario rilanciarlo a partire dagli stabilimenti del Mezzogiorno dove si realizza il 90% della produzione Stellantis».

Quali sono gli scenari di crescita per il futuro?

«Si tratta di un’epoca segnata da un’incertezza strutturale, con labili equilibri geo-politici e commerciali, oltre alle minacce climatiche. Navigare a vista è una soluzione che non possiamo più percorrere. Bisogna muoverci uniti, come Europa, come Paese, come Mezzogiorno per centrare obiettivi di competitività e crescita. A questo proposito entra in campo un concetto che la Svimez prova a esplicitare da tempo, la necessità di tenere insieme i territori di Europa con le politiche di coesione e sostenere la coesione perché è essa stessa una leva per la crescita. Già nei rapporti Letta e Draghi, i documenti più rilevanti dell’ultimo anno, questo concetto emerge tra le righe. In entrambi è evidenziata la necessità di ripristinare la centralità europea nello scacchiere internazionale, facendo leva sul pieno compimento del mercato unico (Letta) e sul recupero della competitività industriale (Draghi).  Per Letta, assicurare il pieno funzionamento del mercato unico significa assicurare piena libertà di movimento tra i diversi territori europei: la libera circolazione per essere tale deve essere una scelta, e non una costrizione. La “freedom to stay” è la pre-condizione del compimento effettivo del mercato unico e del dispiegamento dei suoi effetti sulla crescita europea. Draghi abbraccia l’impostazione di Letta, richiamando l’esigenza di basare la strategia di crescita dell’Unione su un forte patto sociale, nelle sue parole “a strong social contract” per evitare che settori innovativi – e servizi innovativi – si agglomerino nei soli contesti urbani con il rischio di esacerbare le fratture tra centri e periferie, come accade negli USA. Questi passaggi vanno nella direzione di rafforzare la “dimensione spaziale” della competitività europea, condizionando gli obiettivi industriali ai target di coesione e inclusione».

Insomma è chiaro che l’inversione di tendenza che sta caratterizzato il Sud è legata all’effetto di domanda finanziato col Pnrr. Il vero problema è se, oltre a questa ripresa, c’è qualcosa di ulteriore, se possiamo aspettarci un cambiamento strutturale, magari facendo del Sud il principale hub logistico del Mediterraneo come chiede la Svimez da qualche anno. Proprio ieri la Meloni, intervenendo con un video messaggio all’Assemblea Generale 2024 di Alis – Associazione Logistica dell’Intermodalità Sostenibile, ha detto che la logistica ha un ruolo strategico per l’economia italiana e la verità è che lo è ancora di più per la crescita del Mezzogiorno. Ed è bene ricordare che alcune imprese tra le più innovative nei settori delle energie rinnovabili e dell’aerospazio, di cui tanto oggi si parla, si sono insediate proprio tra Puglia e Campania. Il Mezzogiorno non è solo turismo e non può vivere solo di questo. Ha molte potenzialità da sfrutture che possono contribuire a fare crescere tutto il Paese. Basta solo saperle riconoscere e valorizzare.

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FOTO: SHUTTERSTOCK





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