di Giuseppe Gagliano –
La caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria rappresenta un nodo cruciale nella storia recente del Medio Oriente, evidenziando il ruolo di strategie geopolitiche a lungo termine, soprattutto da parte degli Stati Uniti. La Siria è stata al centro di una guerra per procura in cui le potenze globali, attraverso finanziamenti, supporto militare e manipolazione delle dinamiche interne, hanno cercato di ridefinire gli equilibri della regione.
Dal 2013, con il programma della CIA noto come Timber Sycamore, gli Stati Uniti hanno avviato una massiccia campagna di supporto ai gruppi ribelli contro il governo di al-Assad. L’obiettivo dichiarato era quello di rovesciare il regime siriano e sostituirlo con una leadership filo-americana, in grado di allontanare il Paese dall’influenza russa e iraniana. Timber Sycamore ha previsto la fornitura di armi, addestramento e risorse finanziarie a gruppi di opposizione, molti dei quali sono poi confluiti in coalizioni jihadiste o hanno collaborato con elementi radicali.
Nonostante i miliardi investiti, il programma non ha prodotto i risultati sperati. L’intervento militare russo del 2015 ha ribaltato le sorti del conflitto, permettendo al regime di Assad di resistere e recuperare gran parte del territorio perduto. Questo sviluppo ha imposto agli Stati Uniti un cambio di strategia, portandoli a concentrarsi sull’occupazione di aree strategiche, come quella di al-Tanf, e sull’indebolimento delle infrastrutture del governo siriano.
L’approccio americano in Siria è stato progressivamente allineato a una strategia di logoramento, nota come bleeding. L’obiettivo non era più rovesciare direttamente al-Assad, ma prolungare il conflitto per impegnare la Russia in un conflitto costoso e ridurre la sua influenza globale. Questa tattica, sebbene efficace nel mettere pressione su Mosca, ha avuto costi devastanti per la popolazione siriana. La guerra civile ha provocato milioni di rifugiati, centinaia di migliaia di morti e una distruzione sistematica delle infrastrutture del Paese.
L’occupazione americana di porzioni del territorio siriano, in particolare nella regione orientale ricca di petrolio, ha ulteriormente complicato la situazione. Mentre gli Stati Uniti sostenevano di voler combattere l’ISIS, molte risorse locali sono state dirottate per sostenere milizie alleate e gruppi ribelli, lasciando il territorio in uno stato di instabilità permanente.
L’intervento militare della Russia nel 2015 ha cambiato le dinamiche del conflitto. L’alleanza tra Mosca, Teheran e Damasco si è consolidata, garantendo la sopravvivenza del regime di Assad e mettendo in crisi le aspirazioni occidentali. Gli accordi tra la Russia e gruppi locali hanno permesso a Mosca di mantenere le sue basi strategiche a Tartus e Latakia (Laodicea), consolidando la sua presenza nel Mediterraneo orientale.
La recente caduta di al-Assad, nonostante le apparenze, rappresenta una sconfitta per gli Stati Uniti e i loro alleati. L’instaurazione di una coalizione jihadista al potere a Damasco, guidata da figure come Ahmed al-Sharaa (alias al Julani), sottolinea il fallimento del progetto americano. L’Occidente non è riuscito a costruire un’alternativa politica stabile, lasciando spazio a gruppi radicali che minacciano la sicurezza regionale e globale.
La destabilizzazione della Siria non ha solo implicazioni locali, ma riflette un quadro più ampio di competizione globale. La Russia, liberata dal peso del conflitto siriano, potrebbe reindirizzare le sue risorse verso l’Ucraina, rafforzando le sue posizioni in quel teatro di guerra. Questo spostamento di equilibri rischia di mettere ulteriormente sotto pressione l’Occidente, che ha investito enormemente nel sostenere Kiev.
Nel frattempo la popolazione siriana continua a pagare il prezzo più alto. La guerra civile, alimentata da attori esterni, ha distrutto il tessuto sociale del Paese, trasformandolo in un campo di battaglia per interessi geopolitici estranei alle necessità locali.
La Siria è diventata l’emblema delle guerre per procura del XXI secolo, in cui le grandi potenze sacrificano intere nazioni per perseguire i propri obiettivi strategici. Il fallimento del piano americano non è solo una questione di perdita geopolitica, ma un monito sui limiti dell’interventismo e sulle conseguenze devastanti delle politiche di destabilizzazione. La caduta di Assad non segna una vittoria per l’Occidente, ma un’amara constatazione di un conflitto che, lungi dal risolvere le questioni politiche del Medio Oriente, ha solo aggravato la sofferenza dei suoi popoli.
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