Gianni Agostinelli, classe 1978, giornalista e scrittore, è nato a Panicale in provincia di Perugia, nella regione dove è cresciuto e che fa da sfondo a uno dei suoi ultimi romanzi, Resti (Italo Svevo Editrice, 2020), dove con uno stile diretto, autentico e senza troppi filtri, racconta un’Umbria meno idilliaca e bucolica di quella a cui la letteratura e l’arte ci hanno per secoli abituato. Conosciuto come autore di racconti pubblicati su riviste e antologie, sin dall’esordio con il romanzo Perché non sono un sasso (Del Vecchio, 2015), con il quale era stato finalista alla XXVII edizione del Premio Calvino nel 2014, Gianni Agostinelli ci offre uno sguardo autentico sulla sua regione.
L’Umbria, attraverso la sua architettura e la sua arte, da quella antica a quella contemporanea, sembra volersi ritagliare un ruolo centrale nella cultura di oggi. Che rapporto c’è fra passato e presente in questa regione che lei definisce di «provincia»?
Aggiungerei e affiancherei di «campagna» alla parola provincia, considerando che i piccoli centri e comuni in Italia, come in Umbria, sono per il 70% sotto i 5mila abitanti. I miei personaggi appartengono a questo tipo di vita, poco raccontata e vissuta, e personalmente oggi ritengo che dichiarare di essere cresciuti in questi luoghi sia un orgoglio e non, come un tempo, qualcosa da nascondere. Il rapporto fra passato e presente si annoda proprio in questo punto, fra chi appartiene a queste terre e i turisti che, aumentati negli ultimi decenni, oggi visitano la regione. Se da una parte non esiste più un bar tipico con il biliardo e le freccette, sostituiti dalle numerose norcinerie, dall’altra questa presenza straniera è stata, e continua a essere, per chi abita l’Umbria motivo per riscoprire anche le proprie radici e tradizioni. Sarebbe molto importante avere consapevolezza di questo e trasmetterla ai ragazzi. La provincia non è solo uno scenario, è qualcosa di più.
A suo parere c’è una disconnessione fra l’immagine che la regione vuole dare di sé e la realtà?
Non c’è una vera disconnessione fra realtà e immagine che la regione mira a offrire di sé, semmai un dialogo che non sempre comunica adeguatamente. Il turista, quello straniero in particolare, dotato di mezzi economici e tempo, cerca la cosiddetta esperienza slow. In questo l’Umbria offre molto, luoghi tipici e non caotici, ma non per chi li abita ogni giorno. Per chi vive in queste zone, senza mezzi e risorse, l’esistenza può essere comunque una trincea, esattamente come in altri luoghi del Paese. Tuttavia, entrambe le situazioni concorrono alla creazione di un’immagine coerente della regione, il cui ambiente economico e sociale è rappresentato, per l’appunto, tanto dal turismo quanto da tutte le altre attività quotidiane. Semmai il punto è proprio quello di riuscire nel tempo a far parlare sempre di più la campagna. Per questa terra servono più riforme e meno bonus, la volontà in politica di non parlare dei soliti problemi, per quanto importanti come la sanità, il desiderio di contrastare quella stabilizzazione, quell’assuefazione culturale verso il basso cui si assiste negli ultimi tempi. Per questo il contrasto con chi viene da fuori è da percepire come un’importante risorsa.
Che peso dà alle parole cultura e bellezza?
Sono parole molto importanti. Riflettevo proprio di recente su come i miei personaggi non si chiedano mai la differenza fra bello e brutto, quanto invece fra ciò che è utile e ciò che non lo è. Purtroppo questo secondo aspetto è proprio quello che accresce la stabilizzazione culturale verso il basso. Tuttavia, l’incontro fra chi viene da fuori e chi vive qui può essere quell’elemento capace di coltivare la riflessione su ciò che è bello e ciò che è brutto.
Secondo lei ci sono luoghi e linguaggi dell’arte che andrebbero potenziati, capaci di creare una ricchezza non solo economica per la regione?
La proposta museale della regione Umbria è molto ricca: fra arte rinascimentale e contemporanea, non mancano musei da visitare. Tuttavia, anche nella prospettiva di una crescita economica del territorio, non basta una buona pubblicità per incentivare, turisti e non, alla frequentazione dei luoghi dell’arte. Quello che manca davvero è una riflessione, non sulle espressioni artistiche, ma sul linguaggio dell’arte, il saper pesare davvero la sua comunicazione. L’arte è un codice, una possibilità, un’alternativa ad altri campi di cui interessarsi. Spesso, invece, il messaggio che arriva è troppo alto, poco accessibile, tendente a chiudere in un circolo, sicché le persone finiscono con l’avere timore di non comprendere, preferendo non entrare in un museo, non frequentare l’arte. Ci sono, invece, altre attività, come quelle legate alla musica, molto più accessibili, anche in luoghi all’aperto, come festival di musica elettronica, capaci non solo di attrarre i più giovani, ma di accorciare le distanze fra luoghi architettonicamente medievali e la contemporaneità. Si potrebbe prendere spunto da qui per rivedere il linguaggio dell’arte.
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