L’elenco dei paesi sicuri «non è un atto politico, fuori da diritto e giurisdizione». La sentenza resa pubblica ieri dalla Cassazione si riferisce al decreto interministeriale, di natura amministrativa, che era oggetto del rinvio pregiudiziale sollevato dal tribunale di Roma lo scorso luglio. Il principio affermato, però, non può che valere anche per la legge che ha recentemente inglobato quell’elenco in una norma di rango primario. Perché la definizione di sicurezza dei singoli Stati, che permette di applicare le «procedure accelerate di frontiera» e detenere i richiedenti asilo in Italia o in Albania, deriva dal diritto europeo, a cui tutte le norme nazionali sono sottoposte: ha «carattere giuridico». Pertanto è sindacabile dai giudici.
È un duro colpo alla linea del governo. All’indomani della liberazione dei migranti dalla struttura detentiva di Gjader la premier Giorgia Meloni, il guardasigilli Carlo Nordio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi avevano attaccato la magistratura accusandola di invasione di campo. Gli esponenti del governo sostenevano che la materia fosse di loro esclusiva competenza. E invece no.
La Cassazione ha stabilito che il potere esecutivo ha il diritto di fare le sue valutazioni e riempire l’elenco come crede, ma questo deve essere vagliato dal potere giudiziario. «Se così non fosse, sarebbe vulnerato il significato più profondo dell’effettività della tutela garantita dal giudice ordinario quando sono in gioco diritti fondamentali che attengono al diritto di asilo e di protezione internazionale», dice la sentenza. Che risponde indirettamente anche a un altro elemento agitato da Nordio: la mancanza di valutazioni sui casi individuali nelle non convalide dei trattenimenti in Albania. Secondo l’ex magistrato per non applicare le procedure accelerate si sarebbe dovuto stabilire che la singola persona faceva parte di uno dei gruppi minacciati nel paese di origine, Bangladesh o Egitto.
Per la Cassazione, invece, si tratta di due fasi diverse dell’esame giurisdizionale. La prima riguarda una valutazione generale sulla designazione di «paese sicuro»: se questa è ritenuta illegittima il giudice deve disapplicare l’atto amministrativo (o la legge) se in contrasto con le direttive Ue. Ciò va fatto «allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale».
La specifica «in modo manifesto» potrebbe creare dispute, anche se in base alle schede paese redatte con le indicazioni dei soggetti designati dalla direttiva Ue è difficile affermare che Tunisia, Egitto o Bangladesh non siano manifestamente insicuri. Uno degli articoli meno citati della norma europea che elenca i criteri di classificazione di un paese sicuro richiede «un sistema di ricorsi effettivi» contro le violazioni di diritti e libertà. Non basta l’assenza di conflitti, torture o violenze indiscriminate: serve lo Stato di diritto e una magistratura indipendente in grado di tutelarlo.
Solo se la designazione del Paese è legittima, quindi rispetta la direttiva, arriva la seconda fase, quella sottolineata da Nordio. Qui il giudice deve approfondire, anche d’ufficio, il caso individuale per escludere che la singola persona sia minacciata. Ma in questo caso non deve disapplicare la norma, deve soltanto stabilire il passaggio del richiedente alla procedura ordinaria di esame della domanda d’asilo.
La Cassazione ha poi messo nero su bianco che l’iter accelerato implica garanzie ridotte, diversamente da quanto sostenuto nell’udienza del 4 dicembre dall’Avvocatura dello Stato sui ricorsi del Viminale contro le decisioni del tribunale di Roma sui centri in Albania. Di queste impugnazioni si attende l’esito.
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