Maganomics forte, Euro debole. Per noi europei significa una sola cosa: riparte l’inflazione

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I mercati si preparano all’impatto della Maganomics, la politica economica del presidente eletto Donald Trump che promette di essere aggressiva e dirompente. Aggressiva e dirompente verso tutto e tutti, Europa inclusa. Mentre si avvicina il 20 gennaio, giorno dell’insediamento e quindi del ritorno del tycoon alla Casa Bianca, il meteo non reca buone previsioni per l’economia europea. L’anno è appena iniziato e l’Eurozona già segnala un primo primato negativo: la moneta unica cede lo 0,3% nei confronti del dollaro, toccando il minimo da 25 mesi a quota 1,03. Nelle ultime 4 settimane, la valuta europea ha perso l’1,83% nei confronti del biglietto verde e negli ultimi 12 mesi è scesa del 5,53%. Un risultato così non si vedeva da novembre 2022 e nulla fa credere però che il calo si arresterà qui, salvo novità.

​Quando c’è incertezza, ovvero l’elemento che si candida a essere la cifra del 2025, il denaro fluisce dove c’è un maggior rendimento unito a una maggiore sicurezza. Al momento, quella sicurezza non è offerta dall’economia europea. Secondo la Commissione Europea, la crescita attesa per quest’anno è del’1,3%, rispetto all’1,4% indicato in precedenza, quindi con un lieve ritocco al ribasso. I numeri tuttavia, in costante aggiornamento durante il corso dell’anno (per Standard&Poor’s, ad esempio, il Pil crescerà meno, dell’1,2%) tuttavia non fotografano a dovere la marea di ombre che si addensa sull’economia dell’Ue. A partire dallo spettro del gas. L’Ucraina ha ufficialmente interrotto il transito di metano russo attraverso il proprio territorio, non rinnovando un accordo con Mosca che garantiva forniture a Slovacchia, Repubblica Ceca, Austria e Ungheria. La chiusura della rotta ucraina avrà un impatto contenuto, pari ad appena il 5% dell’import totale europeo. Allo stesso tempo, Bruxelles deve fare i conti con diversi segnali di criticità. Sul fronte dei prezzi, infatti, il record di 50 euro al megawattora registrato per la prima volta da oltre un anno, proprio alla vigilia delle chiusura dei rubinetti da parte Kiev, segnala il ritorno di un pericolo che l’Ue ha conosciuto bene, e a sue spese, anche se, rispetto alla crisi energetica scatenata dalla Russia all’indomani dell’invasione ucraina, al momento non si teme una carenza di materia prima. 

Certo, il gas c’è ma costerà caro: Trump ha già promesso all’Ue che per riportare in equilibrio la bilancia commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, e che oggi vede uno storico deficit dell’economia americana verso quella europea, quest’ultima dovrà acquistare sempre più petrolio e gas dagli Stati Uniti. Una minaccia velata di rendere sempre più dipendenti gli europei dagli alleati americani, come lo sono stati fino al 2022 della Russia. Stando ai dati dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (Ieefa), nei primi sei mesi del 2024  il 48% delle importazioni di gnl è arrivato dagli Stati Uniti, il 16% dalla Russia, l’11% dall’Algeria, il 10% dal Qatar e il 4% sia dalla Nigeria che dalla Norvegia. Ora anche il Qatar ha minacciato di tagliare le sue forniture all’Ue di gas naturale liquefatto, se si vedrà sanzionata ai sensi della legge europea sulla due diligence che prevede multe fino al 5% del fatturato annuo per le aziende che non rispettano i criteri stabiliti sui diritti umani e del lavoro e ambiente.  

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Insomma, i timori di prezzi energetici elevati sono tornati, o meglio non sono mai andati. E con essi la paura che la crisi industriale, in particolare del settore dell’automotive che soccombe sotto i colpi dei costi eccessivi rispetto ai competitor extra Ue e della debole domanda interna, sia lungi dal terminare. A questo si aggiunge la divergenza sempre più accentuata tra le economie europea e americana. La politica economica di Trump, basata sul principio del protezionismo per proteggere le esportazioni americane e difendere i posti di lavoro nel Paese, rischia di danneggiare la crescita economica globale, secondo un sondaggio condotto dal Financial Times insieme all’Università di Chicago tra oltre 220 economisti di Stati Uniti, Regno Unito ed Eurozona. Secondo i risultati dell’indagine, predomina la preoccupazione che il secondo mandato di Trump possa alimentare l’inflazione e spingere quindi la Federal Reserve ad adottare un approccio più cauto nel tagliare i tassi di interesse. Politiche come tariffe doganali fino al 20% su tutte le importazioni, espulsione di lavoratori immigrati irregolari, deregolamentazione e tagli fiscali permanenti sono considerate inflazionistiche e potenzialmente dannose per la crescita a lungo termine. Il pessimismo è ancora più accentuato tra gli economisti dell’eurozona: il 13% prevede un forte impatto negativo e il 72% un effetto moderatamente negativo.

In effetti la Fed va in questa direzione: sul finire dell’anno appena concluso, la banca centrale americana guidata da Jerome Powell ha tagliato le previsioni dei tagli dei tassi, dimezzandoli da quattro a due. Sintomo che l’istituzione si prepara a un periodo di tensioni con la Casa Bianca e praticherà la massima cautela nella fase di attuazione della Maganomics. Un dollaro più forte, quindi, a meno che l’economia americana non entri in crisi – nessuna previsione va in questa direzione, al momento – amplierà il divario con l’euro, in discesa da settimane. 

Per questo motivo, a novembre scorso, Isabel Schnabel, membro del Board della Bce, ha segnalato la possibilità che l’Eurotower non andrà così spedita nel tagliare i tassi, come pezzi di economia reale in affanno reclamano da mesi. In un contesto in cui le previsioni economiche rosee per gli Stati Uniti e le promesse elettorali di Trump in campagna elettorale di rilanciare spesa pubblica e investimenti hanno rapidamente rafforzato il dollaro, con un tasso di cambio sempre più sfavorevole, il vecchio continente rischia di importare nuova inflazione nella sua economia. Ed è in questo senso che, secondo Schnabel, deprezzare ulteriormente la moneta unica con un taglio dei tassi sarebbe una mossa da soppesare attentamente.

Di regola, una moneta debole è una buona notizia per le economie industrializzate e orientate all’estero, perché rende più agevoli e convenienti le esportazioni. Ma sotto i colpi di una inflazione che non è chiaro se intende demordere, la crescita incerta e anemica, la profonda crisi industriale, le minacce sul mercato energetico che arrivano da vecchi e nuovi fornitori, lo spettro di nuovi dazi e tariffe nel commercio con gli Stati Uniti, la discesa inesorabile dell’euro verrebbe letta dai mercati nell’unico modo possibile: sfiducia generalizzata nei confronti dell’economia del vecchio continente, in direzione capolinea. Soprattutto rappresenta agli investitori che il mercato europeo, non più attraente come un tempo di fronte all’ascesa delle economie emergenti, possa diventare terra di contesa degli appetiti delle due principali potenze economiche, gli Usa e la Cina. Tanti interrogativi che solo l’ingresso ufficiale di Trump alla Casa Bianca e la sua vera o presunta volontà di mettere in pratica quanto improvvidamente promesso in campagna elettorale potrà fugare.



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