Piersanti Mattarella, più vicini alla verità ma quanto lontani dalla giustizia? La riflessione di D’Anna

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Raramente l’inchiesta su delitto politico gravissimo e sconvolgente come quello del presidente della Regione siciliana e fratello maggiore dell’attuale capo dello Stato, si è trascinata per quasi mezzo secolo. L’unico paragone è quello con l’assassinio di Aldo Moro, del quale il leader politico siciliano era allievo e successore designato. La ricostruzione di Gianfranco D’Anna

05/01/2025

Che cosa può aver squarciato la coltre oscura che da 45 anni avvolge l’assassinio di Piersanti Mattarella?

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L’iscrizione sul registro degli indagati di due superkiller della mafia, Nino Madonia e Giuseppe Lucchese, accusati di avere assassinato a Palermo il 6 gennaio del 1980 il presidente della Regione siciliana, fa inquadrare gli sviluppi dell’inchiesta in un ampio scenario di recenti riscontri probatori, nuove perizie, ulteriori testimonianze e probabili rivelazioni inedite.

Circostanze ed elementi mantenuti segreti e coperti dal massimo riserbo per non compromettere l’inchiesta giudiziaria condotta dal procuratore distrettuale antimafia di Palermo, Maurizio De Lucia, e dalla procuratrice aggiunta, Marza Sabella. Inchiesta entrata nella fase più delicata dell’esatto posizionamento di tutte le tessere del mosaico investigativo col quale si sta ricostruendo, vagliando e verificando tutti i retroscena di uno dei delitti, assieme a quello di Aldo Moro, istituzionalmente più gravi e dirompenti della Repubblica.

Gli ultimi clamorosi sviluppi evidenzierebbero che le indagini sull’agguato e il contesto dell’uccisione di Piersanti Mattarella starebbero seguendo tutte le connessioni degli accertamenti e dei procedimenti giudiziari finora svolti nell’ambito dei processi a Cosa nostra, delle inchieste sulle stragi mafiose e terroristiche e su alcuni omicidi dell’eversione nera. Fra le molteplici e ancora non del tutto note connessioni, quelle principali riguardano il ruolo del killer Madonia, gli intrecci con settori dei servizi segreti di quegli anni da parte della sua cosca mafiosa capeggiata dal padre, il ruolo di Vito Ciancimino e delle correnti democristiane in Sicilia e in parte, nonostante le definitive assoluzioni processuali, dell’esponente del terrorismo neofascista Gilberto Cavallini.

L’iniziale identificazione di Giusva Fioravanti come il killer dell’epifania del 1980 è stata spiegata dai collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo e Gaspare Mutolo, un tempo esponenti di primo piano di Cosa nostra, attribuendola alla effettiva grande somiglianza fra Fioravanti e Madonia e al loro analogo modo di camminare.

Resta da spiegare il percorso della pistola calibro 38 utilizzata per colpire a morte Piersanti Mattarella e impugnata da Cavallini il successivo 23 giugno a Roma per uccidere il magistrato Mario Amato, che indagava sul gruppo della destra eversiva dei cosiddetti Nuclei armati rivoluzionari. Una galassia terroristica attorno alla quale orbitava la banda della Magliana, e della quale oltre ai fratelli Fioravanti e a Cavallini facevano parte Francesco Mangiameli, Pier Luigi Concutelli e Stefano Volo, che orbitavano fra Palermo e Roma.

Di Concutelli, protagonista di una impressionante serie di omicidi fra i quali quello del giudice Vittorio Occorsio, l’allora giudice istruttore Giovanni Falcone accertò l’iscrizione alla misteriosa loggia massonica  palermitana della Camea. Volo avrebbe rivelato a Falcone vari aspetti dei legami intercorrenti destra eversiva, mafia e  servizi segreti.  Anche se sono scomparsi Concutelli, Volo e Mangiameli (ucciso il 9 settembre sempre del 1980 dai fratelli Fioravanti e da altri dei gruppo), i Nar continuano a rappresentare, a livello probatorio, l’anello di congiunzione fra le stragi fasciste, in primo luogo quella di Bologna del 2 agosto di quel fatidico 1980, l’ex Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, guidato da Federico Umberto D’Amato, la loggia massonica P2 e l’assetto di quegli anni dei servizi segreti. Lo attesta, fra gli altri elementi, la targa dell’auto utilizzata dagli assassini di Piersanti Mattarella, divisa in due e una parte della quale fu poi ritrovata in un covo dei Nar.

Il 3 novembre 1988 nell’audizione dinnanzi alla Commissione parlamentare antimafia, Falcone definì l’indagine sull’assassinio del presidente della Regione siciliana “estremamente complessa”, dal momento che “si tratta di capire”, spiego, “se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa, nell’ambito di un presunto scambio di favori tra mafia e terrorismo di estrema destra”.

Centrale appare dagli ultimi sviluppi, il livello criminale del killer Madonia, definito in vari atti processuali “il più pericoloso esponente della storia della mafia siciliana, il ministro della guerra e insieme il ministro di polizia di Cosa nostra”. Condannato a innumerevoli ergastoli e ritenuto l’autore di decine e decine di omicidi e stragi, fra le quali quelle del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del giudice Rocco Chinnici, del segretario regionale del Pci Pio La Torre, e degli agguati al primario ospedaliero Seb Bosio, al vicequestore Ninni Cassarà e all’imprenditore Libero Grassi,  il settantaduenne Madonia è in carcere dal dicembre del 1989.

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Primo genito dello storico padrino della cosca del quartiere palermitano Resuttana, era il terminale, assieme al padre, dei rapporti diretti con esponenti dei servizi segreti di quegli anni, come rivelano e confermano tutti i collaboratori di giustizia, e contemporaneamente col capo dei capi della mafia Salvatore Riina, che lo utilizza come braccio armato per assassinare boss avversari, investigatori, magistrati e politici che indagano sulla mafia o ostacolano gli affari delle cosche.

Secondo il pentito Mutolo, dietro la strategia dei delitti “politici” ordinati da Riina, da Mattarella a La Torre a Michele Reina, vi sarebbe stato Ciancimino, ex sindaco democristiano di Palermo e contemporaneamente esponente di primo piano di Cosa nostra. Ed è in questo contesto che l’assassinio di Piersanti Mattarella risulta terribilmente inquietante, via via che l’inchiesta definisce lo scenario complessivo.

Allievo di Moro l’esponente politico siciliano realizzò fin dal 1975 all’Assemblea regionale una “solidarietà autonomistica” con il Partito comunista italiano che anticipava la solidarietà nazionale del presidente della Democrazia cristiana e del segretario comunista Enrico Berlinguer del 1976. Un’alleanza fra cattolici e sinistra che Piersanti Mattarella sviluppò ulteriormente dopo l’elezione, il 9 febbraio del 1978, alla presidenza della Regione siciliana. Un enorme salto di qualità amministrativa, le carte in regola soprattutto per gli appalti e una prospettiva politica anticipatrice che avrebbero saldato due fatali reazioni: quella degli intrecci fra mafia affari e finanza e quella degli equilibri internazionali, esacerbati dalla guerra fredda. Moventi più evidenti per il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, uno statista del livello di Alcide De Gasperi, un autentico riformista in grado di dare sempre nuovi orizzonti al Paese con un’attenzione sempre rivolta all’uomo, allo sviluppo sociale e della democrazia.

Mentre per l’agguato mortale a Piersanti Mattarella le motivazioni sono più complesse, sfaccettate e inconfessabili. Legate anche alla angosciata denuncia del ruolo nefasto di Vito Ciancimino che il presidente della Regione fece direttamente, ma soprattutto riservatamente, all’allora ministro dell’Interno, Virginio Rognoni.  Il quale non solo non diede seguito alla denuncia, ma da più parti si ritiene possa averla fatta trapelare. Tutte ipotesi legate alla successione di eventi che è sempre più difficile ricostruire anche per la scomparsa dei testimoni diretti, ma tuttavia continuamente riproposte dalla convergenza delle indagini.

“Abbiamo dinanzi a noi ostacoli e resistenze notevoli e non ce ne nascondiamo il peso. Primo fra tutti la recrudescenza del fenomeno della mafia che si ripresenta con tracotanza in questi mesi a turbare lo scorrere ordinato della nostra vita civile”è l’ultimo grido di allarme che Piersanti Mattarella rivolge, al cospetto dell’intera politica siciliana, al presidente della Repubblica, Sandro Pertini, durante la visita del capo dello Stato a Palermo il 9 novembre del 1979.

La considerazione più sconvolgente che emerge dalle circostanze oggettive e dalla documentazione degli avvenimenti, èquella che il via libera all’uccisione di Piersanti Mattarella, ormai interessatamente considerato anche a livello nazionale come l’ingombrante erede di Aldo Moro, sarebbe scattato soltanto dopo il raggiungimento di un accordo scellerato, mediato da Ciancimino, fra Riina e taluni ambienti politici sul “dopo e come“ del prosieguo politico amministrativo alla Regione siciliana.

Vicini alla verità, ma ancora quanto lontani dalla giustizia? Questa la principale domanda che ci si pone mentre gli anniversari passano stanchi, corrosi dalla retorica e dall’oblio.

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