Pollock, in attesa del dripping

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Nel 1943 Peggy Guggenheim, arrivata a New York l’anno prima dall’Europa con la sua magnifica collezione di opere d’avanguardia del Vecchio Continente, aveva deciso di aprirsi, cautamente, ai giovani statunitensi e aveva riunito una giuria per valutare i lavori sottoposti alla sua attenzione in vista di una mostra collettiva da tenersi nella sua nuova galleria Art of This Century. Oltre a Peggy e a Marcel Duchamp, i giurati erano Howard Putzel, suo uomo di fiducia e principale contatto con l’ambiente artistico newyorkese, James Thrall Soby e James Johnson Sweeney, due critici già importanti e destinati a una radiosa carriera, cui si aggiungeva Piet Mondrian, anche lui esule dall’Europa in fiamme.

Jackson Pollock, allora trentunenne, aveva inviato un quadro dipinto l’anno prima, Stenographic Figure, lavoro complesso, di energia esplosiva: un personaggio a destra si confronta con un’altra figura, situata in uno spazio rettangolare nero a sinistra. Lo spazio intermedio è campito da ondate di colori stridenti: bluastro, rosso, giallo, nero. L’epidermide del dipinto è solcata da una ridda di segni: numeri, lettere… più spesso caratteri di un alfabeto misterioso che si leggono anche come tracce della pulsione attiva di un gesto incontenibile. Nel quadro si mescolano il ricordo dell’arte di Pablo Picasso, ancora fresco dopo la grande mostra del 1939 al MoMA, e la memoria di un quadro di Giorgio de Chirico, Le temple fatal, a New York dal ’27, esposto nel Museum of Living Art del mecenate Albert Gallatin e citato ripetutamente da altri due protagonisti di quella stagione dell’arte newyorkese, Arshile Gorky e Willem De Kooning. Da quel dipinto vengono lo sfondo nero di lavagna su cui si ritaglia la figura di sinistra e, almeno in parte, i simboli misteriosi sparsi sul primo piano del quadro, come quello, somigliante a una «A», situato nella porzione bassa del quadro di Pollock. Altri segni si legano all’automatismo, le cui pratiche si erano diffuse a New York nei primi anni quaranta grazie all’arrivo dei surrealisti. Malgrado l’abbondanza di fonti, Pollock dipingeva, come avrebbe osservato pochi mesi dopo Clement Greenberg, «con il suo pennello», con una personalità forte e riconoscibile.

Jackson Pollock a North Truro, Massachusetts, 1944, foto Bernard Schard

Quando Pollock presentò alla giuria Stenographic Figure, Peggy Guggenheim non ne era convinta e stava per escluderlo, ma intervenne Mondrian: il mondo spirituale e artistico di quest’ultimo, con le sue armonie geometriche di verticali e orizzontali, era lontano anni luce dall’energia compressa che si sprigionava dal quadro di Pollock, eppure qualcosa in quel dipinto aveva punto l’anziano pittore, tanto da farglielo considerare come il lavoro più interessante visto sin lì a New York. Fu così che Peggy Guggenheim cambiò opinione su Pollock, lo mise sotto contratto, gli commissionò il grande Murale per la sua casa newyorkese, pieno di riferimenti all’arte dei Nativi americani, e aprì le porte di Art of This Century alla prima personale del giovane artista.

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Quattro delle opere esposte in quella occasione (tra cui, appunto, Stenographic Figure) sono presenti nella sala che segna il punto di snodo della mostra Jackson Pollock Les premières années (1937-1947), allestita al Musée Picasso di Parigi fino al 19 gennaio 2025. L’esposizione segue il tragitto di Pollock dall’apprendistato con Thomas Hart Benton all’Art Students League di New York al contatto con i muralisti messicani e con Picasso, ai disegni psicoanalitici, al rapporto con l’automatismo surrealista, alle incisioni sperimentali eseguite nella stamperia newyorkese di Stanley William Hayter, anch’egli esule da Parigi, e giunge all’alba del dripping.

Se l’appetito di Pollock era formidabile, altrettanto efficace era il suo metabolismo: al maestro Benton aveva rubato l’idea di dare dinamismo alla struttura dei suoi quadri ancorandola a segmenti diagonali variamente disposti sulla superficie, come si vede ad esempio in Composition with Figures and Banners (1934-’38). Del maestro tuttavia rifiutava l’ottimismo con cui, in piena Depressione, questi ritraeva ancora le campagne degli Stati Uniti: Pollock ne restituiva invece il volto cupo, afflitto dalla malora, con i contadini nei campi aridi, illuminati da un pallido sole o dal chiarore di una luna malinconica, motivo quest’ultimo preso in prestito dal tardo romantico americano Albert Pinkham Ryder.

Picasso e i muralisti messicani spinsero Pollock nella seconda metà degli anni trenta verso un linguaggio drammaticamente moderno, tramite il quale egli dette volto e forma a un immaginario carico di tragedia e crudeltà, presente come un’ossessione nei disegni e pastelli che l’autore portava al suo psicoanalista per aiutarlo a illuminare i segreti del suo inconscio.

All’alba degli anni quaranta la pratica surrealista del segno automatico, tracciato senza la mediazione del pensiero, suggerì a Pollock un altro modo per sondare le profondità del mondo interiore. Parallelamente all’indagine dell’inconscio individuale, attraverso i riferimenti all’arte nativa americana, dei Pueblo e degli Inuit in particolare, Pollock voleva attingere alla sapienza millenaria della specie umana, sulla linea di quanto, nell’articolo Primitive Art and Picasso (1937), aveva scritto John D. Graham, pittore e critico, ucraino di nascita (vero nome Ivan Dombrowsky), cui Pollock e altri giovani americani furono vicini nei loro anni formativi.

Il contratto con Guggenheim permise a Pollock e alla moglie Lee Krasner, anch’ella pittrice, di comprare una casa in campagna, con un granaio riadattato a studio, dove nel ’46 l’artista realizzò due gruppi di opere, prima di decidersi a ribaltare la tela di novanta gradi per farne lo spazio in cui la danza del corpo avrebbe depositato senza attrito la sua traccia. La prima serie, intitolata Accabonac Creek dal nome del ruscello che attraversava la proprietà dei Pollock, è ben rappresentata nella penultima sala della mostra con quadri dalla coloritura vivace, come ad esempio The Tea Cup, che piacevano molto a Greenberg perché dotati di una solida struttura d’ispirazione ancora cubista. Sono assenti dalla mostra, invece, i quadri più materici appartenenti alla serie Sounds in the Grass, alla cui faticata stratificazione il pittore opporrà, l’anno dopo, la levità del dripping.

Proprio alla fine la mostra, sin lì assai bella, si imbroglia un po’: l’ultima sala raccoglie infatti un gruppo di opere (eseguite fra il ’43 e il ’47) in cui il segno ottenuto versando o sgocciolando la pittura si sovrappone a superfici dipinte in maniera tradizionale. Le curatrici Joanne Snrech e Orane Stalpers vogliono così dimostrare che la propensione per il dripping fosse attiva nel lavoro di Pollock già dall’inizio degli anni quaranta, ben prima della soglia fatidica del ’47; e che la pratica fosse condivisa con alcuni surrealisti immigrati e altri giovani americani, in particolare Janet Sobel, della quale è esposto Milky Way (1945). Disegnare la genealogia del dripping in Pollock è utile, a patto di non perdere di vista la potenza trasformativa dell’autore. Nelle sue mani il dripping non è circoscritto alla pratica pittorica e assume il suo significato più autentico quando, a partire dal ’47, la tela diventa luogo di mediazione fra l’espressione automatica di un inconscio dolente e la danza dello sciamano che risveglia gli spiriti benigni e li chiama alla guarigione. Smette cioè di essere l’esercizio minuto della mano e rende visibili l’«energia e (il) movimento» del corpo intero dell’artista: la variata morfologia del dripping si presta a esprimere (come capì Frank O’Hara) i moti corporei in atto, più veloci quando il segno si assottiglia, più lenti quando si allarga a macchia. Insomma, il dripping è – come diceva Pollock – un modo di «essere nel quadro», e crea perciò uno spazio ambientale e una tensione inedita fra la materialità dell’opera e l’immaterialità dell’agire. Se il dripping fosse stato soltanto una tecnica, Pollock non avrebbe, come disse una volta De Kooning, «rotto il ghiaccio» e aperto la via all’arte degli anni a venire..



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