Il Castello di Rivoli parla da sé. Il primo e più importante museo d’arte contemporanea in Italia, che ha sede in questo magniloquente maniero cinque-seicentesco “non finito” – e pertanto ancora più affascinante –, trasuda storia antica ma, soprattutto, riassume i segni di fatti recenti, legati alla sua attività espositiva quarantennale – inaugurata il 19 dicembre 1984 da Rudy Fuchs, suo primo direttore, con l’esposizione Ouverture – che ha visto sfilare innumerevoli protagonisti della scena artistica internazionale in mostre memorabili.
Laboratori e mostre per le nuove generazioni
Lo sguardo dagli spalti e dalle finestre del Castello si allunga sulla piana torinese e sulla cerchia alpina che le fa da cornice, ricordando come la sua collocazione decentrata sia un luogo connotato da un certo “isolamento”, che offre sì bellezza, ma che comporta anche qualche difficoltà di accesso. Significativo dunque pensare che, oggi più che mai, a partire dalla rassegna Ouverture 2024 – iniziata nel dicembre scorso e volutamente ispirata dal punto di vista concettuale a quella che siglò gli esordi del Museo –, si voglia attuare un efficace intervento sia di coinvolgimento sociale della struttura stessa che di sollecitazione del pubblico a una partecipazione collettiva alle espressioni della creatività contemporanea. Basti solo ricordare l’iniziativa Il Castello Incantato, varata oggi grazie a Paola Zanini, che mira all’interazione di giovani e giovanissimi con l’arte, ispirati nella loro creatività dall’introduzione a capolavori d’arte moderna e contemporanea appositamente selezionati dalle raccolte del Castello di Rivoli e posti al terzo piano dell’edificio, divenuto a tutti gli effetti laboratorio artistico.
Estrapolate dalle eccezionali collezioni permanenti del Castello, a parte qualche raro caso di prestito temporaneo, le opere di Ouverture 2024, tutte prodotte dal 2000 in poi, siglano un percorso articolato, scandito dalla loro appartenenza a tematiche geopolitiche e ambientali, stimolando riflessioni sull’epoca che viviamo e contestualizzando la ricerca dei singoli artisti negli ambiti che sono loro propri.
Il direttore Francesco Manacorda e il vicedirettore, nonché curatore, Marcella Beccaria non hanno dubbi, “bisogna tornare ai valori fondanti del Museo, a una sorta di patto sociale coinvolgendo artisti delle ultime, coeve, generazioni, come, d’altra parte, fece Fuchs stesso, che incluse in Ouverture solo opere datate dal 1965 al 1984”. Manacorda spiega inoltre: “Il museo oggi deve essere il sismografo di quanto succede nel mondo e parlare alla nostra e ad altre culture su una scena mondiale dominata dalla globalizzazione”.
Il ruolo dell’artista nel 2025
In che modo possiamo definire “diverso” il profilo dell’artista contemporaneo rispetto a quello attivo quarant’anni fa? “L’artista oggi entra più a fondo nelle questioni sociali e politiche. In aggiunta, nel Terzo Millennio, grazie alla rivoluzione digitale, ha sviluppato una molteplicità di letture che aprono finestre sul mondo. Se è bravo, si caratterizza proprio per la capacità di orchestrare polifonie. Cosa che, con Joseph Beyus, Fuchs già aveva anticipato”, precisa Manacorda, aggiungendo poi: “Ciò che soprattutto oggi conta è dare solidità al concetto di Museo. Per conferire solidità all’arte contemporanea stessa”. C’è un artista in mostra che rappresenti un punto di raccordo fra l’edizione del 1984 e quella attuale? “Sì, Lothar Baumgarten, presente sia allora che oggi con un’opera particolarmente significativa”, conclude.
Attraverso le sale – che rievocano, a contrasto, i mai spenti fasti barocchi della residenza sabauda – via via si evidenziano opere dell’ultimo ventennio che costituiscono la spina dorsale di un racconto del contemporaneo quanto mai sfaccettato e pervasivo. Da Otobong Nkanga, che con Lined with Shivers Sprouting from the Rocks (2021) rappresenta una sorta di fulcro orogenetico della Terra, a Pierre Huyghe, che con A Journey That wasn’t (2005) parla della ricerca di un improbabile pinguino albino fra gli inaccessibili ghiacci antartici come metafora della crisi ecosistemica del pianeta, ma anche come riflessione sul concetto di verità.
Da Nalini Malani, che con The Tables have turned (2008) evocativamente simbolizza le trasformazioni subite dall’India a partire dall’era del colonialismo, ad Anna Boghiguian, che orchestra la gigantesca installazione The Salt Traders (2015) esaltando il ruolo giocato dalle vie del sale come tramite di scambi umani e culturali, oltre che commerciali, attraverso i Paesi.
Per giungere, tra le tante altre opere – una quarantina gli autori coinvolti nell’attuale allestimento –, all’installazione Shade Between Rings of Air di Gabriel Orozco, recente donazione dell’artista stesso al Castello di Rivoli, qui presentata per la prima volta al pubblico, ma già esposta alla Biennale di Venezia nel 2003.
In legno, replica in scala 1:1 dell’opera La pensilina realizzata nel 1952 dall’architetto Carlo Scarpa presso il Padiglione Centrale della Biennale come spazio per sculture, innesca cortocircuiti semantici, enfatizzati dalla sua imponenza e dalle varie possibilità di lettura. Modello o clone? Archetipo o filiazione? Labilità o continuità, al di là di connotazioni geo-temporali? Questo e altro, come oggi l’arte impone.
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