In Italia sono censiti 4.292 tra musei (3338), aree archeologiche (292) e complessi monumentali (662), tutti inclusi nella definizione «beni culturali». Prima della pandemia, nel 2019, il totale si avvicinava ai 4.900. Dei 4.292 rimasti aperti, quattrocento appartengono allo Stato, il resto a enti locali e privati. A questi ultimi sono intestati 1.484 beni culturali, il 34,6% del totale, e sono soggetti a una serie di norme per garantirne la tutela e la fruibilità. Oltre metà dei beni è concentrata in sei regioni, Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Lazio e Veneto, ciononostante la regione tra le più visitate è la Campania, perché c’è Pompei, perché Napoli ha ormai consolidato la sua vocazione turistica e ha un centro storico, patrimonio dell’Unesco, tra i primi in Italia a essere tutelato. La nostra regione sarebbe terza dietro Lazio e Toscana, ma il libro non ne spiega la posizione, nè fornisce altri dati, attribuendone la carenza al ministero della Cultura.
Era il 1972 e poco dopo in Italia iniziò a cambiare la politica dei beni culturali e il modo di considerarli da parte del pubblico grazie a un particolare evento che si verificò a Napoli, racconta il giornalista Francesco Erbani in Lo stato dell’arte (Manni, pagine 208, euro 16). Nel dicembre del 1979 fu inaugurata in diverse sedi, principalmente a Capodimonte, la mostra «Civiltà del Settecento a Napoli» a cura di Raffaello Causa, allora soprintendente ai beni artistici della Campania, oltre che direttore del museo di Capodimonte, e sostenuta con convinzione dal primo sindaco comunista ella città, sindaco Maurizio Valenzi. «A parte l’elevatissima qualità della rassegna, rimasta in un ideale albo d’oro delle mostre in Italia, a parte il rilievo internazionale e la partecipazione corale della città, restano impresse le scene del pubblico, numeroso e coinvolto a tanti livelli, sedotto dalle opere pittoriche al pari che da quelle dell’artigianato, dalle ceramiche e dalle cartografie».
Fu allora, e dopo la mostra al Quirinale del 1981 sui bronzi di Riace recuperati nel 1972 in fondo al mare, che si registrò «l’avvio di una tendenza, per l’arte, ad assumere i caratteri di un fenomeno dalle potenzialità di massa. Acquistarono valore i numeri, diventò importante la contabilità delle persone, si misurò la qualità anche considerando le quantità».
Non si conoscono i numeri della mostra napoletana ma da allora il trend è stato sempre in crescita tanto che tra i siti più visitati del 2023 ci sono Pompei, che ha superato la soglia dei quattro milioni di visitatori, oltre il 30% più del 2022, con incassi per 41 milioni di euro, e il Museo archeologico nazionale con 550.000 ingressi, 25% in più del 2022. Il Mann rimane tra i musei statali più dinamici e quello con il primato di «essere il principale prestatore di opere d’archeologia in Italia». Una politica adottata, ricorda Erbani citando fonti del museo, «non per il riscontro economico quanto per la possibilità di instaurare, anzi di incrementare relazioni scientifiche e culturali con altre istituzioni museali, per lo più non italiane».
Al di là dei casi singoli Erbani racconta criticità e potenzialità dei beni culturali italiani. Il punto debole dei musei pubblici è rappresentato dal personale sempre più scarso, le potenzialità si intravedono nelle migliaia di palazzi, ville, residenze storiche, archivi, giardini, architetture fortificate, castelli, torri, mura che ancora non sono entrati nei circuiti turistici e nel patrimonio artistico e culturale italiano ma ne hanno tutti requisiti. Tra le criticità napoletane ci sono ancora da potenziare i collegamenti con Capodimonte, dal numero di visitatori davvero esiguo nonostante le sue potenzialità, mentre ci sono buone speranze che l’Albergo dei poveri con i fondi del Pnrr possa tornare a nuova vita. Nel caso che davvero si sposti lì tutta o, come pare, parte della Biblioteca nazionale, per rimediare alla richiesta alla carenza di spazi di Palazzo reale, bisognerebbe risolvere problemi evidenti come «la gestione di due sedi abbastanza distanti fra loro con un personale che già in a piazza del Plebiscito è ridotto al di sotto di ogni limite plausibile», con il disaggio eventuale di studiosi che avessero bisogno di due volumi, uno collocato nella vecchia sede e un altro nella nuova.
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