Il pediatra aggredito a Catania: «Schiaffi e calci. Il sistema non regge, noi medici siamo le prime vittime»

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di
Lara Sirignano

Piero Pavone: «Un giovane ha cominciato a picchiare il collega dandogli dei pugni in faccia e quando era a terra l’ha colpito a calci. Sono corso ad aiutarlo e sono stato aggredito anch’io. Ora mi sento insicuro, come quando si subisce una rapina in casa»

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Dopo l’aggressione ha pensato di mollare e prendersi una pausa dal lavoro. A fargli cambiare idea, però, sono stati i suoi studenti. Così Piero Pavone, 53 anni, pediatra del Policlinico di Catania e professore universitario picchiato insieme con un collega, venerdì scorso, da uno sconosciuto poi fuggito via, è tornato in ospedale e ha ripreso la sua vita. 

Come si sente ora?
«Ho vissuto un’esperienza che non auguro a nessuno, tanto da aver pensato di prendermi un anno sabbatico. Ma sono stato davvero travolto dalla solidarietà di tanti, specie dei miei studenti. È stata davvero una inattesa ondata di affetto, che mi ha dato la forza di rimettere il camice e tornare in reparto, nonostante sia ancora in malattia. Non dimenticherò mai le parole dei miei ragazzi. Mi hanno detto: “Siamo con lei, non gliela dia vinta”. Davvero, è stato molto bello».




















































L’aggressione subita da lei e dal suo collega Pierluigi Smilari va ad allungare l’interminabile lista degli episodi violenti che hanno come protagonisti i medici. E pensare che solo qualche anno fa, in epoca di Covid, venivate definiti eroi…
«Sì, è vero. Ora invece veniamo additati come nemici. Non c’è nessun rispetto verso la nostra categoria, non si tiene conto del fatto che lavoriamo tra enormi difficoltà e che ce la mettiamo tutta. E poi non siamo per nulla tutelati».

In molti ospedali ci sono servizi di vigilanza. Nessuno è intervenuto durante l’aggressione?
«Non c’era nessuno. E non penso fosse un caso. Anni fa il padre di un paziente mi ha puntato contro una pistola. Un attimo prima c’erano le guardie giurate e decine di persone, a un tratto erano spariti tutti. Lo stesso è accaduto questa volta. Mi viene da pensare che non sia stato un caso. Penso che ci fosse la percezione di quel che stava per accadere e che siamo stati lasciati soli».

Come spiega questo ripetersi quasi quotidiano di aggressioni ai medici?
«C’è qualcosa che non funziona, è evidente. Io sono il primo a dire che la sanità arranca e che a volte le persone si scontrano con lunghe attese o disservizi, ma noi diamo l’anima e spesso siamo i primi a subire le conseguenze delle inefficienze del sistema. Io passo più tempo in ospedale che con i miei figli e certo non lo faccio per denaro. La verità è che manca l’umanità, la comprensione delle nostre difficoltà, perciò assistiamo a reazioni del genere. E poi c’è il problema della pena: perché se passa il messaggio che se prendo a pugni un medico me la cavo con poco, la violenza certo non si arresterà».

Con quale spirito lavorate in queste condizioni?
«Ovviamente si lavora male e con una perenne sensazione di insicurezza. Infatti non a caso c’è la corsa al privato. Ho passato 11 anni al pronto soccorso pediatrico e davvero, alla fine, parlare di burnout non è un’esagerazione. Poi si continua per amore della professione, ma tra le denunce continue e le aggressioni è dura. Le sembra normale, ad esempio, che in caso di esposti e dopo processi che spesso durano anni, se veniamo assolti nessuno ci risarcisce? Nemmeno le spese legali ci vengono rimborsate».

Che cosa è accaduto venerdì scorso?
«Ero davanti all’ingresso del reparto, dentro l’ospedale, quando ho visto il collega discutere con un ragazzo che avevo già notato e che mi aveva apostrofato in malo modo perché l’avevo guardato. Era con un coetaneo e il padre di una paziente ricoverata a cui il giorno prima era stato chiesto di rispettare gli orari di visita. A un tratto il giovane ha cominciato a picchiare il collega dandogli dei pugni in faccia e quando era a terra l’ha colpito a calci. Sono corso ad aiutarlo e sono stato investito da schiaffi in viso e calci nella schiena. Mi sono rialzato e sono corso verso il padre della paziente urlandogli e lui l’ha fatto smettere. Intorno c’erano persone terrorizzate, bambini che piangevano. Il collega era una maschera di sangue: ha commozioni cerebrali e un trauma facciale».

Che impressione le ha fatto tornare al lavoro?
«Mi sento insicuro. È come quando si subisce una rapina in casa. Non si è più tranquilli. Si perde la fiducia. Ho sempre sognato di finire sui giornali per qualche scoperta scientifica e ora mi ritrovo intervistato per aver subito un’aggressione. Non era certo quel che avrei voluto».

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7 gennaio 2025 ( modifica il 7 gennaio 2025 | 07:27)

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