Il 2025 parte con un regalo non troppo gradito: il ripristino della mobilità volontaria come adempimento obbligatori prima di attivare i concorsi pubblici.
Non ha trovato spazio, fin qui, in nessuna norma compreso il “milleproroghe”, la proroga della previsione contenuta nell’articolo 3, comma 8, della legge 56/2019 (cosiddetta “legge concretezza”), ai sensi del quale“…al fine di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, fino al 31 dicembre 2024, le procedure concorsuali bandite dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e le conseguenti assunzioni possono essere effettuate senza il previo svolgimento delle procedure previste dall’articolo 30 del medesimo decreto legislativo n. 165 del 2001”.
Tale disposizione, antecedente alla pandemia, era stata inserita nel d.l. “concretezza” come frutto di un ripensamento della questione dei reclutamenti nella PA. Infatti, già all’epoca si era manifestata in tutta la sua rilevanza la problematica dell’eccessiva riduzione dei dipendenti pubblici, dovuta a quasi 20 anni di tetti variamente restrittivi alle assunzioni ed accentuata dall’attivazione di “quota 100”. Da lì a poco il Covid avrebbe reso ulteriormente palese l’imprescindibile revisione della normativa sul reclutamento: il d.l. “concretezza” consentendo facoltativamente per qualche anno di fare a meno dell’l’impiccio burocratico della mobilità volontaria come condizione e presupposto per i concorsi aveva contribuito a ridurre i tempi complessivi per assumere nuovi dipendenti.
La pandemia, poi, ha fatto il resto ed ha reso in modo ancor più macroscopicamente evidenti le carenze organiche ed i bizantinismi, sì da portare alle riforme dettate dal d.l. 80/2021 e ad un prolungamento al 31.12.2024 della facoltà di attivare i concorsi senza farli precedere dalla mobilità volontaria.
Come evidenziato, dall’ 1.1.2025 il beneficio della facoltà di non attivare la mobilità prima dei concorsi salta e, quindi, tutte le amministrazioni dovranno prima provare a coprire le dotazioni mediante mobilità e solo dopo potranno avviare i concorsi.
Questo implica uno slittamento delle tempistiche complessive necessarie ad attuare i programmi dei fabbisogni: infatti, ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001 le pubbliche amministrazioni debbono pubblicare (sul portale InPa), per un periodo pari almeno a trenta giorni, un bando finalizzato alla mobilità, in cui sono indicati i posti che intendono ricoprire attraverso il “passaggio diretto” di personale di altre amministrazioni, con indicazione dei requisiti da possedere. Ai 30 giorni di pubblicazione debbono seguire, poi, ulteriori tempi necessari per esaminare domande e curriculum, e, soprattutto, effettuare i colloqui, decidere se e chi selezionare, chiudere il procedimento con le necessarie comunicazioni motivate ai partecipanti.
Insomma, prima di attivarsi materialmente coi concorsi, occorre impiegare alcuni mesi. Il ripristino della mobilità riacutizzerà l’ingegno, spingendo le amministrazioni a bandire in parallelo mobilità e concorsi, inserendo nei bandi di questi ultimi clausole che ne condizionino l’effettivo avvio e l’effettiva totale copertura dei posti indicati agli esiti della mobilità.
In ogni caso, qualora la procedura di mobilità si concluda con un nulla di fatto, senza selezionare una figura ritenuta idonea o qualora non si ottenga il nulla osta (se dovuto) dell’amministrazione di provenienza, le PA avranno in ogni caso impiegato tempi e risorse spropositati ai fini del reclutamento.
In sostanza, tutte le belle intenzioni e parole spese in questi anni ai fini della velocizzazione e semplificazione delle assunzioni verranno in buona parte vanificate, perchè i tempi per giungere alle assunzioni si allungheranno e non di poco. Nè basterà, per negarlo, riferire il conteggio alla sola fase del concorso vero e proprio: un modo serio di computare i termini tra approvazione dei fabbisogni e materiale assunzione deve tenere in considerazione il lasso speso per la mobilità volontaria.
E’ frutto di distrazione o del caso la mancata proroga o, cosa che sarebbe ancora migliore, la mancata messa a regime della mera facoltà di far precedere i concorsi dalla mobilità? A ben riflettere, probabilmente nulla è causale.
L’articolo 30, comma 2-bis, del d.lgs 165/2001, stabilendo che le procedure concorsuali debbano essere successive alla mobilità volontaria intende perseguire il duplice obiettivo di razionalizzazione organizzativa e di tenuta sotto controllo dei conti pubblici, visto che la mobilità non comporta nuova spesa per la PA.
Questa, allora, è la chiave per comprendere le ragioni del ripristino della mobilità volontaria come presupposto dei concorsi: la speranza che essa possa ridurre il carico di ulteriore spesa, connesso a nuove assunzioni.
Occorre sempre ricordare che la spesa per il personale pubblico incide per circa il 17% della spesa totale e, dunque, è circa l’8% del Pil: si tratta di grandezze economiche e finanziarie rilevantissime, specie in presenza del deficit di bilancio dell’Italia e dell’enorme debito pubblico da sostenere.
Non a caso il Piano strutturale di bilancio di medio termine prevede che la spesa totale per il personale pubblico è di euro 195.817 nel 2024, euro 197.882 nel 2025, euro 199.406 nel 2026 e euro 198.164 nel 2027: sostanzialmente, quindi, la spesa per il personale è rappresentabile con una linea piatta e non crescente. Infatti, i soldi stanziati per la stagione contrattuale del triennio 2022-2024 coprirà appena un terzo degli indici di inflazione.
Per garantire che la spesa pubblica connessa al personale resti nei fatti ferma, come prevede il Piano strutturale di bilancio di medio termine, dunque, non solo occorre che la contrattazione nazionale collettiva sia molto morbida ed intesa a non garantire il recupero completo dell’indice Ipca, ma, nonostante i proclami sul potenziamento delle dotazioni organiche ed il ringiovanimento dell’età media del personale pubblico, bisogna anche tenere sotto stretto controllo il numero delle assunzioni, facendo in modo che i nuovi ingressi non siano in realtà mai superiori alle cessazioni.
E’ esattamente dovuta a questa ratio la reintroduzione, per ora non valevole per regioni ed enti locali, della copertura del solo 75% della spesa del turn over.
La medesima ratio probabilmente ha guidato verso la scelta di ripristinare la mobilità come presupposto dei concorsi: non solo ciò consente di rinviare nel tempo le assunzioni, ma limita anche i nuovi ingressi mediante la “partita di giro” del personale che spostandosi da un ente all’altro consente a quelli che lo acquisiscono di soddisfare i fabbisogni, senza nuova spesa pubblica.
Gli enti che vedono andar via i dipendenti in mobilità, se non appartenenti a regioni ed enti locali, potranno considerare solo il 75% della cessazione (la legge di bilancio elimina, finalmente, l’assurdità della neutralità finanziaria della mobilità): quindi, la mobilità volontaria quale presupposto dei concorsi non solo diluisce nel tempo le assunzioni, ma contribuisce a ridurne il numero e a tenere sotto controllo i costi.
Certo, tutto ciò contrasta platealmente col già citato e molto propagandato obiettivo di acquisire nuove competenze e ringiovanire i ruoli. Ma, evidentemente, di necessità si deve fare virtù.
Il ripristino della mobilità come presupposto dei concorsi, però, scatta in un contesto molto diverso rispetto al 2019, quando venne introdotta la facoltà, utilizzatissima, di non avvalersene. Infatti, il d.l. 80/2021 ha disposto la sciagurata riforma dell’articolo 30 del d.lgs 165/2001, volta a ridurre quanto più possibile la possibilità dell’amministrazione di appartenenza di non consentire il trasferimento di propri dipendenti verso altre amministrazioni.
E’ chiaro che in un contesto nel quale si ripristina, per molte amministrazioni, il tetto al turn over determinato nel 75% della spesa del personale cessato, è interesse molto forte dell’ente pensarci molto bene prima di assentire alla mobilità in uscita.
Però, la riforma del 2021 sottrae alle PA la possibilità di esprimere il “preventivo assenso” (cioè il nulla osta) al trasferimento, a meno che:
- non si tratti di posizioni dichiarate motivatamente infungibili dall’amministrazione cedente;
- non si tratti di personale assunto da meno di tre anni
- la mobilità determini una carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente.
Non ricorrendo queste eventualità, per l’ente cedente non resta che la possibilità di differire, per motivate esigenze organizzative, il passaggio diretto del dipendente fino ad un massimo di sessanta giorni dalla ricezione dell’istanza di passaggio diretto ad altra amministrazione.
Fanno eccezione a tale sistema i dipendenti del settore scuola e il personale delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale e degli enti locali se abbiano un numero di dipendenti a tempo indeterminato non superiore a 100: a tali enti resta la possibilità di esprimere il previo assenso (per gli enti locali con oltre 100 dipendenti si applicano le tre condizioni viste sopra per poter continuare ad emettere il nulla osta, precisando che le carenze di organico da indicare per gli enti locali con un numero di dipendenti compreso tra 101 e 250, è del 5%; per gli enti locali con un numero di dipendenti non superiore a 500, è del 10%; ovviamente per gli enti locali con un numero di dipendenti superiore a 500 è del 20%).
Pertanto, per moltissimi enti la riattivazione della mobilità come presupposto dei concorsi comporta seriamente il rischio di perdere molti dipendenti, senza potersi opporre e, per giunta, potendo coprire i vuoti di organico così determinati entro il tetto al turn over nel 75% della spesa del personale cessato nel 2024.
Nel caso degli enti locali, invece, con molta probabilità si assisterà ad un diffuso diniego del nulla osta e ad una probabile crescita del contenzioso.
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