Coltivare diamanti, cucire i bordi. Per fare cultura insieme

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Diamanti è un film sublime, un capolavoro per intensità emotiva, cura del dettaglio, bellezza. Con due piste di ricerca che si incrociano e rincorrono. La prima ha a che fare con un mondo governato dallo sguardo di donna: linguaggi, priorità, relazioni, sogni e incubi. Un mondo anti patriarcale dove c’è posto anche per gli uomini. A patto che sia un posto laterale, subordinato. Un mondo denso, intenso, caldo, accogliente. Insomma un posto migliore. Per tutte e tutti.

La seconda pista riguarda la potenza espressiva e solidale della sorellanza, della condivisione della esperienza creativa, la dimensione collettiva e di scambio della produzione culturale.

Provando a ragionare su una visione della cultura che supera la sua semplice definizione accademica o intellettuale. Un insieme di esperienze condivise, sottolineando come può essere il risultato dell’interazione tra persone, società e tradizioni, non solo una questione di conoscenza erudita, ma un’esperienza vissuta che include arte, storia, valori e pratiche. Per Philipe Daverio, ad esempio, la cultura è ciò che definisce l’identità di un popolo e al contempo arricchisce la consapevolezza personale, permettendo all’individuo di sviluppare una visione più ampia del mondo.

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Non consiste nell’immagazzinare informazioni o nozioni, ma nel collegare conoscenze per creare significato e comprensione: qualcosa che dovrebbe ispirare piacere estetico e riflessione, unendo il passato e il presente per generare emozioni e connessioni. Una sua celebre frase sintetizza il concetto: «La cultura non è ciò che sappiamo, ma ciò che facciamo con ciò che sappiamo».

La cultura è quindi dinamica, un ponte tra il passato e il futuro, che si realizza nell’azione, nell’interazione sociale e nella creazione artistica.
Philippe Daverio ha spesso citato e valorizzato il lavoro degli artigiani, che nel film sono artigiane, considerandoli una componente fondamentale della cultura italiana e universale. Egli attribuiva all’artigianato un ruolo chiave nella trasmissione di sapere, estetica e tradizioni. Scriveva: «L’artigiano è l’ultimo vero interprete della bellezza. È colui che tiene viva la memoria storica della manualità e, allo stesso tempo, la innova con la sua creatività». Attraverso le sue mani, l’artigiano preserva tecniche e conoscenze tramandate nei secoli, contribuendo a mantenere vivo il patrimonio culturale.

Diamanti dunque ci indica una strada possibile che riguarda il benessere e la dimensione pienamente umana delle persone. Condividere, fare le cose con le altre, farle per il piacere di creare, e di mischiare la competenza creativa a partire appunto da un gesto artigianale. Manuale e professionale perché quell’atto è lavoro cosciente, come lo era quello dell’operaio di mestiere prima della catena di montaggio. In quel caso lavoro per creare un vestito di alta sartoria. Dove le protagoniste mettono insieme il pensare e non il pensiero. Pensano e agiscono insieme, parlano, ridono, sgobbano, cuciono, vedono, immaginano ciò che le stoffe possono diventare. E con le stoffe cosa possono diventare loro stesse. Compiute, vive e felici. Tenendo tutto assieme.

«Finisce il ricreativo comincia il culturale». Diceva il coordinatore della casa del popolo in Berlinguer ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci. Aggiungeva poi «chi disturba lo sfondo» ma questa è un’altra storia. Ma forse sbagliava a vedere una distinzione così netta tra i due momenti, la tombola e il dibattito «pole la donna pareggiare l’omo?». Inventando un linguaggio straordinariamente efficace, popolare, denso di contraddizioni vitali. Soprattutto sbagliava a dare vita a un dibattito tutto teorico senza la dimensione esperienziale.

Oggi più di ieri, in un mondo che investe sulla solitudine come ultima straordinaria frontiera del consumo, rivendicare politiche culturali che mettano in scena e facciano vivere esperienze collettive è un gesto rivoluzionario.

Monolocali, mono porzioni, pet economy, piattaforme, social, consegne a domicilio, spesa a domicilio, intrattenimento digitale personalizzato, relazioni immateriali. Tutto dimensionato sull’uno che non diventa due. Non solo legittime scelte di esodo individuale ma soprattutto orientamenti di mercato capaci di sussumere e mettere a valore il vivente umano e non umano.

Le politiche culturali possono rompere questo accerchiamento se rompono la gabbia dell’isolamento sociale proponendo opportunità pubbliche e gratuite di fruizione comune della grande bellezza e della possibilità di creazione condivisa. Fare le cose e farle insieme. Lavorare sulla aggregazione e qualificazione della domanda culturale diffusa. Mettere assieme esperienze, emozioni, tenendo conto dello sguardo dell’altro. Un po’ spettatori, un po’ attori, capaci di accogliere l’altro da sé.

Dunque il tema non è lo spettacolo estemporaneo o gli eventi, anche perché in una grande città serve tutto, piuttosto la possibilità di realizzare infrastrutture e momenti creativi da insediare dove le persone vivono e spesso dimenticano, per la fatica del vivere, di cercare il loro punto di accesso al cuore. Alla loro personale dimensione trasformativa. La musica, il cinema, i libri, il teatro, la poesia a cosa servono se non a questo? E servono se nelle disponibilità di chi vive nei quartieri, nelle borgate, nella cintura ultima di periferie infinite. Sviluppando per questa via consapevolezza e anche occasioni professionali vere.

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Abbiamo fatto tre piccoli passi in questa direzione: l’avvio della stabilizzazione dei precari del teatro dell’opera perché lo spettacolo è per molti lavoro; il bando open 25, 5milioni di euro per progetti culturali che devono fare i conti con l’indice di perifericità, ovvero più i progetti sono lontani dal centro e meglio è; e Capodarte, cento eventi diffusi in tutta la città con due piazze centrali, San Basilio e Casal del marmo. Con due grandi artisti, Rancore e Giancane, a fare da supporter a un microfono aperto messo nelle mani di giovanissime crew e band che mischiano il dialetto con l’italiano, l’arabo e il francese. E centinaia di ragazzi e ragazze capaci di raccogliere l’invito.

Piccoli segni di controtendenza: stare e fare le cose insieme, guardarsi e riconoscersi. Con l’ambizione di preservare e coltivare questa bolla come pratica fuori mercato utile solo a stare bene e di stare bene con gli altri. Sostenendo la dimensione professionale. Per una nuova idea del pubblico, a partire da ciò che è comune. Come ricucire non solo le stoffe ma i bordi strappati delle nostre città.

*Assessore alla cultura di Roma



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