Le dimissioni di Belloni e la nuova tecno-destra all’attacco

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Ma davvero le dimissioni di Elisabetta Belloni dal vertice dei nostri servizi di informazione sono indipendenti dall’intromissione nell’area delle comunicazioni più riservate degli apparati di sicurezza del Paese di Elon Musk? La coincidenza dei tempi, e la natura dei due eventi – l’improvvisa e brusca uscita di uno dei funzionari più accreditati e prestigiosi della pubblica amministrazione italiana, già candidata alla presidenza della Repubblica, in parallelo con una sfacciata interferenza che un gruppo privato estero esercita esattamente sulle competenze di quegli apparati di sicurezza –, non possono essere ignorate. Ed è davvero singolare come questo aspetto sia stato esorcizzato da tutta la stampa, compresa quella che fa riferimento alle opposizioni, che solo ora si accorgono come il Paese sia stato messo all’asta dal punto di vista della sua autonomia nazionale.

Tra l’altro, come potrebbe un onesto alto funzionario, responsabile della sicurezza nazionale, accettare che i dati essenziali e sensibili del proprio Paese possano essere dati in appalto a un signore a cui nemmeno i servizi di sicurezza del Paese che lui governa, come delegato alla semplificazione della burocrazia, hanno concesso il nulla osta per accedere a informazioni secretate? Insomma, Musk può fare in Italia quanto non gli è concesso nemmeno dalla presidenza Trump, notoriamente di bocca buona?

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Ma Meloni è donna d’onore – potremmo dire riecheggiando l’orazione di Antonio sul cadavere di Cesare. Il “caso Musk” è qualcosa che va al di là dell’ennesima caduta di stile e di etica politica da parte dell’attuale governo. Siamo dinanzi a un primo esempio di cosa si annuncia sulla scena globale con la nuova presidenza Trump, assistita e guidata dal magnate sudafricano. Il bersaglio che questa nuova tecno-destra ha messo nel mirino è proprio il ruolo di controllo e di garanzia dello Stato, come spazio pubblico di contenimento e regolazione della proprietà privata. Le società spaziali di Musk hanno come loro ragion d’essere la sostituzione delle istituzioni pubbliche con poteri individuali. Pensiamo che oggi l’intero settore dei lanci di satelliti nello spazio, fino a qualche anno fa di strettissima competenza di aziende pubbliche americane o europee, è largamente controllato dal proprietario di Tesla e di X, così come il piano di sbarco su Marte viene condiviso da Musk con Bezos, il proprietario di Amazon.

Ma tornando sulla Terra, abbiamo visto tre anni fa, in Ucraina, come l’uomo più ricco del mondo si sia sostituito perfino al Pentagono nel garantire alle forze di Kiev l’indispensabile copertura per la geo-referenziazione delle truppe d’invasione russa. E come poi, in base a un mero calcolo di interesse personale, lo stesso miliardario abbia ridotto quest’appoggio, aprendo a una collaborazione con il Cremlino.

Ora, l’Italia è stata individuata come ventre molle dell’Europa, e da tempo Musk ha catturato il governo Meloni nella sua rete di relazioni e favoreggiamenti nei contatti con il presidente americano eletto. Sul tavolo due obiettivi: uno formale, che riguarda l’integrazione di Starlink nella copertura digitale del Paese. In sostanza, i satelliti di Musk rammendano la rete bucata delle connessioni via Internet nelle diverse aree nazionali. In questi giorni, un bando in Lombardia di cinque milioni per le aree più periferiche sembra fatto su misura per la società spaziale privata. Ma il secondo obiettivo che Musk si è posto è far saltare il banco dei nostri servizi di sicurezza, spingendo fuori dal ring la Belloni.

SpaceX, la società capofila delle attività spaziali di Musk, di cui fa parte Starlink, avrebbe infatti presentato un piano di riorganizzazione di tutte le comunicazioni sensibili degli apparati statali, da quelli militari a quelli diplomatici, alle comunicazioni fra i diversi apparati della pubblica amministrazione, fra cui la sanità e il fisco, diventando, inevitabilmente, il grande fratello del sistema di governance nazionale. Tanto più che da anni l’Italia è in balia delle correnti su questo aspetto nodale. Non ci sono scelte nette in materia di connessione, con il dualismo fra Open Fiber e Tim, ancora il fondo americano Kkr sta tentando di diventare azionista di riferimento di entrambe queste società pubbliche; non ci sono soluzioni definitive sulla dolente nota del cloud nazionale, in cui devono confluire tutti i dati della pubblica amministrazione, che sembra ormai destinato a essere appaltato ad Amazon e Google, tramite l’interfaccia di Tim. Siamo dunque un Paese esposto a ogni tentazione esterna alla governance nazionale – e Musk lo ha ben individuato.

La sua è una partita di grande rilevanza geopolitica. Qualora l’intesa andasse in porto, nei termini anticipati nei giorni scorsi dall’agenzia Bloomberg, l’Italia diventerebbe un modello di quella strategia sintetizzata dallo stesso Musk, nella sua funzione di liquidatore del sistema pubblico americano che gli ha attribuito Trump, con la formula “sostituire i dati alle regole”. Una opzione che, attraverso la digitalizzazione, condurrebbe a quello Stato minimo che la tecno-destra vagheggia da tempo. E lo Stivale, sotto il protettorato tecnologico della strana coppia al vertice degli Stati Uniti, si proporrebbe anche come base operativa di un piano di penetrazione e conquista dell’intero mercato europeo, mutando completamente la tradizionale politica di alleanza con gli Stati Uniti. In previsione di questa evenienza, che già si intravedeva all’orizzonte, il parlamento europeo ha approvato due regolamenti – uno per le attività spaziali, l’altro per le cybersecurity – che escludono una svendita a un gruppo extra-continentale di attività delicate, come quelle che riguarderebbero i servizi delle società di Musk.

Proprio l’Europa, che comunque dovrà pronunciarsi sul contratto del governo, a questo punto diventa il passaggio decisivo. Sia perché le pulsioni privatistiche di palazzo Chigi potrebbero essere duramente stigmatizzate dalla Commissione europea (il cui vicepresidente è però l’ex ministro meloniano Fitto), sia perché, dinanzi a una bocciatura del suo partner Musk, Trump potrebbe dare la stura a tutte le ostilità nei confronti del vecchio continente. Roma assume così il ruolo di pomo della discordia, oltre che di rivelatore di quella tecno-destra che sta riclassificando l’intera dinamica politica globale.

In questo bailamme, rifulge il tono dimesso delle sinistre, sia nazionali sia continentali. In gioco, attraverso l’assetto delle relazioni digitali, c’è l’idea di Stato, di uno spazio pubblico come luogo di compensazione dei poteri privati. Un terreno su cui ricostruire un protagonismo politico alternativo all’omologazione al nuovo corso di Washington. Ma su questo tema – la natura e i contenuti delle nuove forme di governance al tempo dei dati e degli algoritmi – si pagano i decennali ritardi di una cultura politica che continua a ritenere questo mondo un intruso.



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