Italia, Paese di santi, poeti, navigatori… e produttori di armi. Questa volta, il “Made in Italy” non brilla per design o gastronomia, ma per pistole e munizioni che finiscono dritte dritte nei territori palestinesi occupati. E se pensate che sia colpa di un errore di spedizione, sbagliate: è un sistema perfettamente funzionante. A spiegarlo, con dati e fatti precisi, è un’inchiesta di Elisa Brunelli, pubblicata su Altreconomia. Dopo gli eventi del 7 ottobre 2023, che hanno visto un drammatico aumento della violenza in Cisgiordania, l’Italia ha continuato a esportare armi e munizioni verso Israele, ignorando ogni appello alla prudenza. La cosa preoccupante è che queste armi, formalmente destinate a un uso civile, finiscono nelle mani dei coloni che vivono in insediamenti illegali, rafforzando un mercato senza controllo.
Una “giustizia” per pochi
Secondo Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle armi leggere (Opal), gran parte delle esportazioni italiane riguarda armi “comuni”. Non sono progettate per uso militare, ma possono essere acquistate da chiunque abbia una licenza. E in Israele, ottenere una licenza è diventato più facile che prenotare un tavolo al ristorante. Grazie alle riforme del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, basta dimostrare di aver frequentato tre corsi di tiro negli ultimi vent’anni e fare un colloquio telefonico. Con queste regole, in meno di tre mesi sono state presentate 300mila richieste. Il risultato? Decine di migliaia di nuove armi in circolazione, spesso nelle mani dei coloni più estremisti.
Beretta e Fiocchi: protagonisti silenziosi
Tra i marchi che spiccano in questo mercato opaco ci sono due nomi italiani: Beretta e Fiocchi. Entrambe le aziende hanno una lunga tradizione nel rifornire il mercato israeliano. Armi Beretta e munizioni Fiocchi sono regolarmente presenti nei negozi e nei poligoni degli insediamenti illegali in Cisgiordania, Gerusalemme Est e nel Golan siriano occupato. Secondo Altreconomia, il famoso poligono Caliber 3, vicino alla colonia di Efrat, utilizza pistole Beretta persino per addestrare bambini. E non è finita: sagome di palestinesi con la tradizionale keffiyeh vengono usate come bersagli in altri poligoni, a dimostrazione di quanto questo commercio non sia solo un affare economico ma un simbolo di oppressione.
La Fiocchi, dal canto suo, ha dichiarato di aver sospeso le esportazioni verso Israele nel gennaio 2024. Peccato che un’ultima spedizione sia avvenuta a marzo, giustificata come una “sostituzione” di materiale. E se pensate che l’azienda abbia il controllo su dove finiscono le sue munizioni, vi sbagliate. Lo ha ammesso lo stesso presidente, Stefano Fiocchi: “Non possiamo escludere che vengano vendute nelle colonie illegali”.
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Un mercato senza regole
I dati dell’Istat parlano chiaro: tra gennaio e settembre 2024, l’Italia ha esportato armi e munizioni verso Israele per oltre 5 milioni di euro. Da Brescia e Lecco, sedi di Beretta e Fiocchi, sono partite spedizioni per un totale di quasi 2 milioni di euro. E non è tutto: anche se il governo italiano, con il ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha più volte ribadito la sospensione delle esportazioni di armi, i numeri smentiscono queste dichiarazioni.
La militarizzazione dei coloni
Nel frattempo, la vita nei territori occupati diventa sempre più pericolosa per i palestinesi. Squadre di coloni armati, supportate dall’esercito israeliano, continuano a terrorizzare le comunità locali. Secondo le Nazioni Unite, solo nei primi nove mesi del 2024, ci sono stati oltre 1.600 attacchi violenti da parte dei coloni. Ma è dopo il 7 ottobre che la situazione è precipitata: migliaia di pistole, fucili M-16 e mitragliatrici sono state distribuite agli insediamenti, mentre i Consigli regionali delle colonie si sono organizzati per acquistare altre armi grazie a donatori privati. Questa militarizzazione non è solo un problema di sicurezza. È una strategia sistematica di espulsione dei palestinesi, che vengono cacciati dalle loro terre per fare spazio agli insediamenti illegali. E a ogni colono che si arma, corrisponde una famiglia palestinese costretta a fuggire.
Il “Made in Italy“, in questo caso, non è motivo di orgoglio. Le armi italiane non solo alimentano un mercato fuori controllo, ma contribuiscono direttamente alla perpetuazione di un conflitto che non sembra avere fine. E mentre i produttori si nascondono dietro licenze e formalità, chi paga il prezzo più alto sono i palestinesi, vittime di una violenza che il nostro Paese continua a rifornire.
L’inchiesta di Elisa Brunelli per Altreconomia mette in luce una realtà che non possiamo più ignorare. Perché dietro ogni arma venduta c’è una responsabilità che va ben oltre il profitto. E questa responsabilità è anche nostra.
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