“Il futuro è nel coraggio della libertà”

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Carlo Levi nel 1972, quando lasciò il parlamento, dopo due legislature in Senato da indipendente di sinistra (eletto nelle liste del Pci), scrisse una poesia piena di amarezza, intitolata Compagni, che si chiudeva con queste parole: “Così piango su un passato / di fiducia e sacrifici / solidali, di allegria / di compagni, in questo crescendo / trionfo dell’ipocrisia / nella viltà del concerto / dell’anonimo apparato”. Levi aveva allora settant’anni e si preparava ad affrontare una nuova fase della sua vita (morì meno di tre anni dopo, il 4 gennaio 1975, mezzo secolo fa), lontano dagli impegni istituzionali; il mondo attorno gli piaceva sempre meno, eppure, nonostante una certa malinconia e acciacchi anche importanti (due interventi chirurgici agli occhi), non mancò di dire la sua sui temi caldi del momento. Nel maggio ‘74, nel pieno della campagna per il referendum sul divorzio, scrisse un intervento per l’Unità, col suo consueto piglio, mettendo in maiuscolo la scelta da compiere nella cabina elettorale: “L’uomo sa dire NO, non per superbia o per rivolta, ma per consapevole decisione. È il suo privilegio, il suo dovere e il suo diritto. È il frutto della sua ragione e della sua volontà. E oggi dirà NO, che vuol dire Libertà”

Levi ebbe un rapporto emozionale ma costante con la politica, fin dai suoi anni giovanili. Era poco adatto ai giochi di potere e di partito, ma fu un antifascista attivo, un cospiratore e anche un saggista politico di spessore. Gigliola De Donato e Sergio D’Amato, nella biografia Un torinese del Sud: Carlo Levi (Baldini & Castoldi 2001), ricordano che nel 1929 fu il giovane Levi a disegnare i francobolli – una spada fiammeggiante, la scritta “insorgere-risorgere”, una folla che scaglia pietre – e a scrivere i testi per i manifestini diffusi clandestinamente dal neonato gruppo torinese di Giustizia e Libertà.

Levi fu un antifascista “naturale”, secondo un’inclinazione familiare: era cresciuto alla scuola di Piero Gobetti e si era legato al gruppo di Carlo Rosselli, assimilando le idee del socialismo liberale. Finì ben presto al confino, nella Basilicata che gli cambiò per più versi il destino, sia perché Cristo si è fermato a Eboli, il romanzo uscito nel 1945, lo avrebbe consacrato fra i maggiori scrittori italiani del ‘900, sia perché la scoperta del Meridione avrebbe marcato la sua visione politica e il suo stesso impegno parlamentare.

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Come ebbe a scrivere una volta: “La Lucania mi pare più di ogni altro un luoogo vero, uno dei luoghi più veri del mondo (…) Qui ritrovo la misura delle cose vere (…) il pane che manca è un vero pane, la casa che manca è una vera casa, il dolore che nessuno intende un vero dolore”. In Lucania si candidò, senza successo, alle elezioni del 1948, per le liste di Alleanza Repubblicana: fu durante la campagna elettorale che conobbe Rocco Scotellaro, poeta e giovane sindaco socialista di Tricarico: ne sarebbe nata un’amicizia personale e intellettuale profonda, stroncata nel ‘53 dalla morte di Rocco, a soli 32 anni. Al tempo di quella campagna elettorale Levi aveva già maturato la più grande delusione politica della sua vita, la fine del governo Parri, il “governo della Resistenza” guidato dal capo partigiano Maurizio, il governo che avrebbe dovuto cambiare nel profondo le strutture e le istituzioni del Paese e che invece ebbe breve e stentata vita, seguita da Levi da molto vicino, quale direttore del giornale azionista L’Italia libera. Levi avrebbe scolpito il crepuscolo dei sogni di palingenesi nelle pagine de L’orologio, uscito nel 1950, uno dei romanzi politici più belli del nostro ‘900: “Eravamo partiti – fa dire a Andrea Valenti, controfigura nel romanzo di Leo Valiani – che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al Governo, e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi chissà forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima: cose sempre più piccole e più lontane, e un’astratta passione sempre uguale”.

Levi nel ’47 votò contro lo scioglimento del Partito d’azione, ma si trovò sconfitto e di nuovo socialista senza partito. Critico con i governi di centro-sinistra, a suo giudizio troppo rinunciatari, accettò nel 1963 la corte che gli fece per conto del Pci l’amico Giorgio Amendola, che gli strappò il sì alla candidatura e subito dopo – secondo la leggenda – fece entrare nella stanza un notaio per fargli firmare le carte, prima di eventuali ripensamenti. Levi fu un parlamentare scrupoloso e si impegnò lungo tre filoni principali: il progresso del Meridione, la tutela del patrimonio culturale, la difesa degli emigranti, che intravedeva come possibili protagonisti di un più generale movimento di emancipazione.

Nel 1939, esiliato in Francia, aveva scritto un testo politico importante, Paura della libertà, la sua opera prima, nelle intenzioni nemmeno destinata alla pubblicazione (sarebbe uscita nel ’46). In un clima di guerra, nel crepuscolo dell’Europa, Levi denunciava l’alienazione delle masse e contrapponeva l’autonomia del cittadino, di chi sta sotto, allo strapotere dello Stato. In una lettera del ’63 a Mario Alicata riassunse il suo modo di vedere la storia e la politica del suo tempo: “Due mondi si affrontano, di cui uno ha parlato troppo e non sa e non vuole più dar senso alle sue parole ridotte a merce, a cosa, a gesto e a grido; l’altro è nato e cresce, ma non ha ancora veramente incominciato a parlare. Quello che dirà (…) può nascere soltanto, nel futuro del suo cuore antico, dal coraggio e della fantasia della libertà”.



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