L’abitare contemporaneo come esercizio di potere

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Quando l’architetto svizzero Jacques Herzog era direttore di Domus, il britannico David Chipperfield gli chiese cosa si dovesse fare di fronte ai disastri ambientali, alle ineguaglianze sociali, alla povertà e alla distruzione delle risorse planetarie. La risposta fu: «Niente».
Questo aneddoto, raccontato dallo studioso francese del bioregionalismo Mathias Rollot, è riportato nell’ultimo saggio di Franco La Cecla, Addomesticare l’architettura / L’occidente e la distruzione dell’abitare (Utet, pp. 175, euro 19), ed è citato quale lapidario esempio dell’impermeabilità dell’architettura occidentale riguardo alle disuguaglianze e ai conflitti economici e sociali che colpiscono il pianeta, in particolare la prova che questa, diversamente da altre discipline, non è mai stata «ancora investita da una critica della sua funzione di colonizzazione globale».

L’ANTROPOLOGO palermitano perviene a questo giudizio severo e senza appello, che già aveva esposto nei suoi precedenti saggi (Contro l’architettura; 2004; Contro l’urbanistica, 2015), dopo avere registrato di persona i danni causati dal «rullo compressore» dell’edilizia, che ha divorato, soprattutto nei paesi dell’Asia e dell’Africa, enormi superfici di territorio per inurbare masse enormi di popolazione proveniente dalle aree rurali.
Da viaggiatore tenace ha potuto misurare la dimensione planetaria delle trasformazioni in negativo subite negli ultimi decenni dal paesaggio e dalle città. Non gli si può dare torto, il fenomeno non è nuovo e ad accorgersene non è il primo. Tuttavia, mettere insieme l’occupazione cinese dei territori degli uiguri con l’esproprio degli israeliani di quelli palestinesi in Cisgiordania, che si potrebbe estendere ad altri numerosi casi – dalla lotta degli indios a difesa della foresta amazzonica colpita dall’industria dell’agro-business, alla rivendicazione dei mapuche in Cile – il rischio è non comprendere le vere cause della crisi planetaria che stiamo attraversando, che crediamo risiedano nel capitalismo che immagina le risorse del pianeta eterne per uno sviluppo anch’esso illimitato. L’architettura contemporanea di per sé sostiene il dominio capitalistico, ne asseconda gli scopi, incarna i valori della new economy, e partecipa anch’essa, inclusa nel sistema dei saperi che regolano l’ordine sociale, a riconfigurare le ineguaglianze, inserita com’è nell’economia politica. Un’élite di architetti non vi si riconosce e sperimenta altre strade, ma sono ininfluenti e spesso afasici davanti ai problemi che pone l’urbanizzazione del mondo.

Come afferma il demografo Jacque Véron, la contrapposizione dei «due mondi»: l’uno «rurale, legato a valori e pratiche tradizionali e l’altro, urbano, rivolto risolutamente verso il futuro» tende inevitabilmente a generalizzarsi e con essa i modelli di vita, gli spazi dell’abitare, del lavoro e del tempo libero.
In questo scenario così complesso per La Cecla la «prova di resistenza» può essere data dal recupero della «domesticità»: da qui l’«addomesticare» del titolo. Alla domesticità, che la modernità ha profondamente degradato, si assegna il compito di contrastare la deriva dell’abitazione trasformata in merce, e alla rivalutazione della quotidianità, la forza per contrastare il nostro declino sociale.

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PUÒ SENZ’ALTRO essere degno della massima considerazione che l’antropologia s’interroghi sull’abitare contemporaneo, «rimodellando» il mondo attraverso la «discesa nell’ordinario della domesticità», in breve proponendo la ritualità del premoderno, anche se è legittimo dubitare che da solo ciò basti. Cambiare il mondo significa colmare il divario Nord e Sud che la crisi climatica accresce e ripensare radicalmente l’impiego delle risorse disponibili per favorire quella sostenibilità che solo in apparenza s’insegue, in una parola porre un’alternativa al sistema capitalistico globale.
Promuovere l’abitare come «pratica di decolonizzazione e indigenizzazione dello spazio», la difesa dei valori locali insieme all’uso accorto delle risorse è una atto lecito e necessario che è sempre stato presente nella cultura architettonica. Tuttavia, questo non è sufficiente per giungere al superamento dei problemi che ha portato l’Antropocene. Individuare delle soluzioni a questa nostra «postmodernità disorientata» (Touraine) non è semplice, altrettanto complesso è avere un pensiero sull’architettura rispondente alle nuove sfide che impone la crisi climatica e ambientale, ma ciò riguarda tutti e non solo gli architetti.



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