L’improvviso cambio di paradigma del colosso di Menlo Park costringe a rivedere le proiezioni sui social: meno filtri, piĆ¹ flusso indistinto dei contenuti e ritiro dal purpose. Saranno insomma gli utenti i soli arbitri di ciĆ² che ĆØ vero o falso. Ma cosa significa per la nostra quotidianitĆ online? Ć da qui che inizia la nuova fase social del trumpismo? L’analisi di Matteo Flora
Lāultima mossa di Meta, ovvero lāingresso di John Elkann (esponente di punta della finanza europea) e Dana White (presidente UFC ed emblema dellāimprenditoria americana āsenza troppi fronzoliā) nel consiglio di amministrazione, sembra suggerire qualcosa di molto piĆ¹ profondo di un semplice rimpasto aziendale. Da Menlo Park arrivano segnali di un cambio di paradigma in cui si mette in discussione lāintero impianto della comunicazione digitale: fine del fact-checking, meno censura e piĆ¹ ādemocraziaā dei contenuti, oltre alla svolta āanti-wokeā e al ritiro dal campo di battaglia del Purpose. Lāattenzione ā e la tensione ā si spostano cosƬ su una nuova forma di ācustomer intelligenceā e su una disintermediazione spinta delle narrative, in cui gli utenti diventano arbitri ultimi del vero e del falso.
Il ānuovo Metaā
Lāingresso di Elkann e White nel CdA di Meta ĆØ un segnale inequivocabile di quanto la piattaforma cerchi di rafforzare la sua influenza su due mercati-chiave: Europa e Stati Uniti. Non si tratta piĆ¹ di reclutare esperti esclusivamente tech, ma di coinvolgere figure in grado di muovere leve istituzionali e politiche, i cosiddetti Rainmaker: contatti ai massimi livelli, relazioni con governi e stakeholder. In parallelo, la scelta di affidarsi alle Community Notes (sul modello di X, ex Twitter) e di ridurre la censura inaugura un approccio che delega alla moltitudine di utenti la funzione di āgarantiā delle notizie.
Il video in cui Mark Zuckerberg annuncia la fine del fact-cheking sui social Meta
Se questo da un lato appare come unāoperazione di radicale disintermediazione (non piĆ¹ gatekeeper ufficiali, ma una āfollaā che decide), dallāaltro espone la piattaforma ai ben noti rischi della democrazia digitale: bias di conferma, spirali del silenzio, echo chamber e logiche di popolaritĆ che possono sovrastare la veritĆ fattuale. Mark Zuckerberg non nasconde che le pressioni politiche e legali lo inducano a un ritorno alle āoriginiā dei social, in cui la libertĆ di parola era lāattrattiva principale. E se questo significa anche tendere la mano a Donald Trump (storico oppositore delle ācensureā big tech), poco importa, purchĆ© la piattaforma resti rilevante e appetibile per il pubblico piĆ¹ ampio possibile.
La fine del purpose
Parallelamente si registra un trend sempre piĆ¹ manifesto: quello della āfine del Purposeā, o meglio la sua graduale messa da parte. Se negli ultimi anni le aziende ā specialmente quelle tech ā si erano sforzate di accreditarsi come āpaladineā di cause sociali e politiche (dallāinclusivitĆ allāambientalismo, dal gender equity allāantirazzismo), ora si avverte un desiderio di tornare ai fondamentali: vendere prodotti, fare business. Le ragioni non sono difficili da individuare. Da un lato, lāenvironment del marketing e della comunicazione ĆØ diventato piĆ¹ incerto; dallāaltro, le imprese temono che schierarsi troppo esplicitamente possa alienare fasce di pubblico e scatenare boicottaggi o tempeste social.
Lāemergere del value shifting
Potremmo leggere questa tendenza anche alla luce della Teoria della Coltivazione di George Gerbner, la quale afferma che i media (e di conseguenza i brand) contribuiscono a forgiare lāimmaginario collettivo, proponendo un frame della realtĆ che, a forza di ripetizioni, diventa ānormaā. Il āvalue shiftingā attuale segna un ridimensionamento dellāimpegno ideologico: si preferisce offrire un messaggio piĆ¹ neutrale, meno partigiano, per non perdere quella fetta di consumatori disillusi dal cosiddetto politically correct.
Gatekeeping in crisi
Il fulcro di questo cambiamento si coglie anche analizzando alcune celebri teorie sui Mass Media e sulla Psicologia cognitiva, a partire dalla Gatekeeping Theory di Kurt Lewin ci ricorda che, in passato, la funzione di ācustodeā dellāinformazione era affidata a redazioni giornalistiche, grandi emittenti, istituzioni di fact-checking. Oggi assistiamo a una sorta di āneo-gatekeepingā affidato allāintelligenza collettiva degli utenti: un esperimento di wisdom of the crowd, in cui ciĆ² che conta ĆØ la āvotazioneā popolare.
Parallelamente si deve tornare a McCombs e alla sua (e di Shaw) Agenda Setting Theory, che sottolinea come i media tradizionali non dicessero alle persone ācosa pensareā, ma su ācosa pensareā. Se le grandi piattaforme rinunciano al proprio ruolo di āfiltroā, si apre un vuoto: chi definirĆ le prioritĆ dellāagenda pubblica? CāĆØ il rischio che la mole impressionante di contenuti non sia governata da alcun criterio di rilevanza, lasciando il posto a meccanismi di popolaritĆ virale, spesso associati a echo chamber e filter bubble.
Dalla Identity politics alla Customer intelligence
In questa configurazione in cui la conoscenza delle opinioni diventa il fattore differenziante per potervisi adattare, una nuova partita si svolg sul fronte del marketing e della profilazione: se il āPurposeā e lāadesione a cause politiche o sociali erano stati per anni lo strumento principe per fidelizzare determinate nicchie (pensiamo alla identity politics, dove si cercava un posizionamento molto definito su questioni di genere, etnia, orientamento), ora la musica sembra cambiare. Il potere non risiede piĆ¹ nella capacitĆ dellāazienda di dettare valori ā rischiosa in un contesto polarizzato ā bensƬ nella sua abilitĆ di comprendere i valori e i desideri mutevoli del pubblico.
In questo senso, la customer intelligence diventa la bussola in un oceano comunicativo sempre piĆ¹ frammentato: anzichĆ© puntare su campagne che gridino a gran voce principi universali, il focus si sposta sulla capacitĆ di analizzare e interpretare i dati comportamentali e le preferenze degli utenti, in modo quasi āgranulareā. Conoscere in profonditĆ ā e in tempo reale ā i bisogni della community consente alle aziende di offrire prodotti e messaggi just in time, personalizzati e scevri da etichette ideologiche troppo marcate. Siamo in una fase in cui la āprofilazioneā non ĆØ piĆ¹ solo segmentazione demografica, ma una vera e propria scienza del comportamento, affinata da algoritmi di machine learning e da piattaforme sempre piĆ¹ sofisticate.
Come cambia il potere mediatico
Le mosse di Meta, come spesso accade, fungono da cartina al tornasole per lāintera evoluzione dei social media. Dallo smantellamento degli strumenti di fact-checking ātradizionaliā alla spinta verso la ādemocrazia direttaā delle Community Notes, fino alla svolta meno censoria e meno vincolata al purpose, ciĆ² che emerge ĆØ un cambio di paradigma potenzialmente epocale.
Sul piano teorico, stiamo assistendo a una revisione delle grandi narrazioni della comunicazione di massa e della formazione dellāopinione pubblica: la fine del gatekeeping istituzionalizzato non significa necessariamente che lāinformazione diventi piĆ¹ libera; piuttosto, apre la strada a nuove forme di condizionamento orizzontale, dove le logiche delle folle possono rivelarsi ambivalenti: inclusive, ma anche feroci.
Ce lo raccontava, a ben vedere, giĆ Walter Lippmann: la āpluriformitĆ ā delle fonti non garantisce automaticamente la qualitĆ del discorso pubblico: dipende da come gli individui (e le masse) elaborano i messaggi. E Noam Chomsky, con il suo Propaganda Model, ci ha insegnato che spesso i ārumori di fondoā possono offuscare la vera natura del potere che muove lāinformazione.
Nel frattempo, il Value Shifting nel marketing rivela che le aziende preferiscono una neutralitĆ strategica, concentrandosi su ciĆ² che sanno fare meglio (produrre, vendere, generare profitto), delegando ai consumatori la scelta di come utilizzare prodotti e piattaforme. Ma per orchestrare questa strategia in un mondo dove lāagenda e la verifica non sono piĆ¹ centralizzate, occorre padroneggiare un nuovo strumento: la customer intelligence. Riconoscere i trend, ascoltare la voce del pubblico (anche e soprattutto quella parte āsilenziosaā o minoritaria) e prevenire il backlash del momento diventa cruciale per sopravvivere in un ecosistema mediatico dalle regole in continua evoluzione.
Verso una responsabilitĆ collettiva?
La rivoluzione di Meta ĆØ solo la punta di un iceberg che riguarda lāintero panorama della comunicazione digitale: la parabola del Purpose e dellāIdentity Politics ha esaurito la sua spinta propulsiva; al suo posto, sāintravede una fase di realismo imprenditoriale e, al contempo, di disintermediazione estrema dellāinformazione. Siamo di fronte a un equilibrio delicato, dove la libertĆ espressiva si scontra con i bias cognitivi e le ātirannieā della maggioranza, e dove la credibilitĆ dei brand si fonda non piĆ¹ sulle ācauseā sposate, ma sulla capacitĆ di dialogare con un pubblico eterogeneo, volubile e pronto a reclamare il proprio posto al tavolo delle decisioni.
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Lāesito di questa transizione rimane aperto: la sfida oggi piĆ¹ che mai soprattutto per i comunicatori aziendali consiste nel trasformare la āsaggezza della follaā in una responsabilitĆ collettiva, e nel rendere la customer intelligence uno strumento per valorizzare ā anzichĆ© soffocare ā le diversitĆ e lāinnovazione.
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