La replica di Arcimboldi, Piccolo, Fiera. La Scala: «Per i lavori fissi noi assumiamo». Oltre alla Fema nel mirino della magistratura anche le coop Domina e Socoma
La reazione principale è di stupore, stemperato da incredulità. «Faccio fatica a immaginare situazioni paragonabili al caporalato in quella realtà», spiega Gianmario Longoni, direttore artistico del teatro Arcimboldi, uno dei committenti della cooperativa Fema, società che fornisce personale per eventi e servizi, all’interno di musei e teatri, come «maschere», portieri e custodi. La Procura ha disposto il «controllo giudiziario» per Fema, a causa delle paghe «sotto soglia di povertà», corrisposte ai suoi lavoratori. Nel mirino della magistratura ci sono anche le cooperative Domina e Socoma, che si sono salvate dallo stesso provvedimento perché hanno documentato alla Procura l’aumento «spontaneo» del 47 per cento delle tariffe.
Secondo il pm Paolo Storari le retribuzioni corrisposte da Fema sono in contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, cioè «sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro». La paga (a seconda dei livelli di inquadramento) oscilla tra i 5,68 e i 6,61 euro l’ora, per uno stipendio netto mensile tra i 1.107 e i 1.146 euro. Per questo la Procura ha disposto il «controllo giudiziario» della cooperativa, con contestuale nomina di un amministratore giudiziario che interrompa «una situazione di vero e proprio sfruttamento lavorativo».
«Mi sembra alquanto surreale», dice Longoni, commentando la decisione della Procura e riavvolgendo il nastro al momento in cui l’Arcimboldi ha iniziato ad affidarsi alla cooperativa per avere personale. «Quando abbiamo rilevato l’attività nel 2020, abbiamo rilevato anche i contratti fatti dal precedente gestore. Tra questi c’era quello con Fema». L’Arcimboldi si è rivolto in questi anni alla cooperativa per richiedere personale addetto alla sicurezza ma anche per servizi di accoglienza in teatro. «Perché c’è un problema di fondo: abbiamo bisogno di lavoratori e non li troviamo. Un po’ perché questo tipo di impiego costringe a sacrificare parte della vita personale, poiché si lavora anche nel weekend. Sia perché il caro vita a Milano incide. Gli stipendi sono troppo bassi rispetto a quello che richiede vivere qui». A ciò si aggiunge la difficoltà nel trovare lavoratori che abbiano mansioni specialistiche: «Queste figure dopo il Covid sembrano essere sparite. Per questo siamo costretti a rivolgerci alle cooperative. O almeno noi teatri più piccoli».
Situazione differente, ma non troppo, al Teatro alla Scala, un altro dei committenti di Fema. «Facciamo ricorso alla cooperativa per sostituzioni per compiti di guardiania e portierato», spiegano dal Piermarini, sottolineando che La Scala si rivolge a Fema «solo per sostituzioni — non per coprire lavori fissi — e non per le maschere: sono assunte direttamente dal teatro. Da poco abbiamo siglato anche un accordo con i sindacati per coinvolgere gli studenti».
Altri committenti di Fema ribadiscono la regolarità delle procedure utilizzate. È il caso del teatro Piccolo che precisa «di aver affidato i servizi di custodia, biglietteria, accoglienza e assistenza al pubblico con regolari procedure ad evidenza pubblica a conclusione delle quali sono stati stipulati contratti con la Cooperativa Fema» (qui la testimonianza di Lapo Cicognani, capo maschera al Piccolo). Sulla stessa lunghezza d’onda Fiera Milano che si rivolge alla cooperativa per servizi di accoglienza e reception. «Il rapporto con Fema è regolato da contratti assegnati a seguito di una selezione di mercato volta a individuare il miglior fornitore», si legge nella nota.
Nonostante le retribuzioni corrisposte da Fema ai suoi dipendenti siano in regola con gli accordi sottoscritti dai sindacati, per la Procura sono «insufficienti ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». «Ogni agosto percepisco uno stipendio inferiore agli 800 euro», racconta un dipendente, sottolineando che «l’unica fonte di sostentamento» è la cooperativa. Ancora più bassa la paga di un’altra lavoratrice: «600 euro al mese netti. Se non ci fosse mio marito che contribuisce con il suo stipendio, da sola non riuscirei a vivere». «Per mille euro netti sono tenuto a svolgere ore di straordinario che mi vengono di fatto corrisposte come ordinarie», dice un altro lavoratore. Dai racconti dei dipendenti emerge «lo stato di bisogno» che costringe i lavoratori ad accettare queste condizioni: «non ho alternative» è la risposta più frequente.
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