Perché l’aumento dell’evasione Iva nel 2023 può essere un problema per i conti italiani. E rende più difficile tagliare le tasse

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Non è solo un problema statistico e un grattacapo politico. L’aumento dell’evasione Iva che secondo la Commissione europea si è registrato nel 2023 (leggi) in Italia e in altri grandi Stati Ue potrebbe avere nei prossimi anni ricadute non indifferenti sui nostri conti pubblici e sulle tasche dei contribuenti. Perché quel dato è direttamente collegato con l’ammontare delle risorse a disposizione per tagliare le tasse.

Un passo indietro. Le stime ufficiali sull’andamento dell’evasione vengono prodotte in Italia da una commissione di esperti indipendenti nominata dal ministro dell’Economia. La necessità di avere a disposizione dati di contabilità nazionale il più possibile precisi fa sì che la relazione pubblicata nell’autunno di ogni anno contenga le stime relative a tre anni prima. Si tratta di numeri politicamente e finanziariamente sensibili. Perché evidenziano l’impatto sul nero delle politiche adottate dai diversi governi. E perché è proprio partendo dal recupero di evasione calcolato nella relazione che il Mef stabilisce quanta parte di quelle somme può essere considerata una maggiore entrata permanente ed essere trasferita in un fondo speciale da utilizzare per ridurre la pressione fiscale.

Stando alle ultime relazioni, l’evasione Iva è fortemente calata tra 2017 e 2021 scendendo da 35,6 a 17,8 miliardi, anche grazie a fatturazione elettronica, meccanismi contabili come lo split payment, misure che rafforzano la tracciabilità delle operazioni e ampliamento dei bonus edilizi. Lo scorso ottobre, nel Piano strutturale di bilancio che ha sostituito la Nota di aggiornamento al Def, i tecnici del Mef usando una metodologia meno accurata sono arrivati invece alla conclusione che nel 2023 c’è stato un netto peggioramento della compliance, cioè il rispetto delle norme fiscali. Peggioramento non sufficiente però per annullare la buona performance del 2021. Che è stata quindi ritenuta permanente, consentendo di incrementare il fondo speciale di 2,19 miliardi poi utilizzati come coperture per la legge di Bilancio per il 2025. Quei soldi sono insomma serviti al governo per confermare anche quest’anno gli effetti della riduzione del cuneo fiscale.

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Il report della Commissione pubblicato a dicembre contiene cifre più preoccupanti, pur con tutti i caveat del caso (i dati sulla riduzione del tax gap negli anni segnati dalla pandemia potrebbero essere poco solidi). L’evasione Iva nel 2023 sarebbe salita di ben 7,8 miliardi rispetto all’anno prima. Se dalla relazione 2026 arriverà la conferma di quella inversione di tendenza, magari accompagnata anche da un aumento del gap relativo all’Irpef da lavoro autonomo che percentualmente è salito già nel 2021, le carte in tavola cambieranno. Le maggiori entrate permanenti si riveleranno, ex post, temporanee. E non ci saranno risorse aggiuntive da utilizzare per il taglio delle tasse. Occorrerà trovare faticosamente altre coperture, facendo sempre i conti con il nuovo Patto di stabilità.

La speranza del ministero di via XX Settembre è che quello scenario non si materializzi. La possibile scappatoia è legata a differenze metodologiche tra le stime Ue e quelle prodotte dalla commissione nominata dal Mef. Quest’ultima tiene conto anche della variazione dello stock dei crediti Iva, cosa che spiega anche il divario tra i rispettivi dati in valore assoluto. Proprio l’andamento dei crediti nel 2023 potrebbe aver contribuito a una riduzione dell’imposta di competenza e quindi della distanza tra l’Iva attesa e quella riscossa. Tradotto: l’aumento dell’evasione Iva sarebbe stato più contenuto rispetto a quanto fanno temere le valutazioni di Bruxelles. Al momento la spada di Damocle resta. Anche perché gli aggiornamenti delle stime per gli anni precedenti in seguito alla revisione dei conti nazionali, arrivata dall’Istat in ottobre, potrebbero pesare in senso opposto.



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