La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 307/2025 depositata l’8 gennaio, ha stabilito in materia di tassazione dei proventi illeciti che ai fini IRPEF, i redditi derivanti da attività illegali devono essere imputati al periodo d’imposta in cui il contribuente ne acquisisce l’effettiva disponibilità, indipendentemente dal momento in cui viene commesso il reato.
Corte di Cassazione – Sez. Trib.- ord. n. 307 dell’08-01-2025
Il fatto
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un ex direttore di un ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate, coinvolto in plurimi episodi di corruzione. L’amministrazione finanziaria aveva emesso un avviso di accertamento per recuperare a tassazione i proventi illeciti, qualificandoli come “redditi diversi” ai sensi dell’art. 14, comma 4, della legge n. 537/1993, come autenticamente interpretato dall’art. 36, comma 34-bis, del D.L. n. 223/2006, convertito in legge n. 248/2006.
La controversia si è sviluppata attraverso vari gradi di giudizio. In primo grado, la Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso del contribuente, annullando l’avviso di accertamento. La Commissione Tributaria Regionale aveva inizialmente confermato tale decisione, ma la Cassazione aveva cassato la sentenza per vizio di ultra petizione, rinviando la causa alla stessa CTR del Veneto in diversa composizione.
Nel giudizio di rinvio, la CTR ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate, respingendo l’originario ricorso del contribuente. La controversia si è concentrata principalmente sull’individuazione del corretto periodo d’imposta cui imputare i proventi della corruzione. Il contribuente sosteneva che i redditi avrebbero dovuto essere accertati con riferimento al biennio 2004-2005, quando furono commessi gli illeciti, e non al 2006, come invece sostenuto dall’Agenzia delle Entrate.
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Possesso del reddito
La Commissione Tributaria Regionale del Veneto ha ritenuto corretta l’imputazione all’anno 2006, momento in cui le somme erano effettivamente confluite sui conti correnti del contribuente e della moglie. Questa interpretazione è stata ora confermata dalla Suprema Corte.
La decisione si fonda su una rigorosa interpretazione del concetto di “possesso del reddito”, presupposto fondamentale dell’IRPEF secondo l’art. 1 del TUIR. Come specificato nell’ordinanza, il termine “possesso” evoca la riferibilità a un soggetto di determinati redditi e la titolarità in capo a lui degli inerenti poteri di disposizione.
Particolare rilievo assume nella motivazione la natura del reato di corruzione, qualificato come “reato a duplice schema“. La Corte precisa che il delitto si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa o con la dazione-ricezione dell’utilità. Quando alla promessa segue effettivamente la dazione, il reato si consuma nel momento in cui si realizza quest’ultima condotta, che rappresenta un approfondimento dell’offesa tipica.
Sul piano pratico, l’ordinanza fornisce agli uffici accertatori un criterio chiaro per l’individuazione del periodo d’imposta cui imputare i proventi illeciti: ciò che conta non è il momento di commissione del reato (il “momento corruttivo”), ma quello in cui il contribuente acquisisce l’effettiva disponibilità delle somme.
La pronuncia si inserisce nel quadro normativo che assoggetta a tassazione i proventi illeciti, introdotto dalla legge n. 537/1993 e precisato dal D.L. n. 223/2006. Quest’ultimo ha chiarito che i proventi da attività illegali, qualora non classificabili nelle altre categorie reddituali previste dall’art. 6 del TUIR, devono essere considerati come redditi diversi.
Conclusioni
L’ordinanza evidenzia anche come la normativa fiscale preveda espressamente la tassazione dei proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, purché non già sottoposti a sequestro o confisca penale. Tali redditi vengono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria reddituale di appartenenza. Nel caso specifico, la Suprema Corte ha ritenuto che la valutazione del materiale probatorio operata dal collegio di secondo grado, che ha individuato nel 2006 l’anno in cui i proventi di reato entrarono nella sfera di disponibilità del contribuente, non fosse sindacabile in sede di legittimità.
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