Negli accordi di “no-poaching” aziende concorrenti si impegnano a non assumere lavoratori l’una dell’altra. Vietate negli Usa e in Europa, le clausole servono a mantenere bassi i salari. Ecco cosa succede quando a prevederle sono le reti di franchising.
Accordi tra imprese concorrenti
I problemi concorrenziali causati dall’eccesso di potere che pochi venditori hanno sui mercati dei prodotti (monopolio e oligopolio) sono ampiamente studiati e dibattuti in ambito economico e sociale. E sono contrastati dalle legislazioni antitrust. Meno studiate, almeno fino a poco tempo fa, sono le distorsioni generate dal potere di mercato dei compratori (potere di monopsonio).
Nella versione da manuale, il monopsonio nel mercato del lavoro si ha quando in una città c’è un solo datore di lavoro e i lavoratori non hanno alternative occupazionali. Ma il problema si può manifestare in altri scenari. Ad esempio, quando poche imprese si dividono un mercato del lavoro, un lavoratore assunto con un salario basso rispetto alla sua produttività riceverebbe offerte migliori dalle altre imprese, che avrebbero interesse ad assumerlo anche a un salario più alto (e più “giusto”). Se però le aziende si mettono d’accordo per non fare mai offerte di lavoro ai rispettivi dipendenti, sono loro stesse a guadagnarci, a scapito dei lavoratori. Per molte legislazioni antitrust, questo tipo di intese, a cui ci si riferisce come accordi di “no-poaching” (non assunzione), sono illegali.
Ma cosa succede quando gli accordi di non assunzione vengono stipulati da imprese che sono legate da contratti commerciali, come quelli di franchising? Negli ultimi anni, il fenomeno ha sollevato una certa attenzione negli Stati Uniti. In Europa, solo nel 2023 sono state trovate prove concrete dell’esistenza di clausole di no-poaching nei contratti di franchising, in particolare in Italia, dove le catene occupano quasi 300mila persone (per capirsi, più degli impiegati, diretti e indiretti, dell’intero settore dell’automotive).
Gli effetti sul mercato americano
Negli Stati Uniti, di accordi di no-poaching si è parlato per la prima volta nel 2010, quando, in seguito a un’azione del Department of Justice, si scoprì che Adobe Systems, Apple, Google, Intel, Intuit, e Pixar si erano accordate per non assumere i rispettivi dipendenti. Come hanno chiarito nel 2016 il Department of Justice e la Federal Trade Commission, quando le imprese sono in diretta concorrenza nei mercati del lavoro questi accordi sono illegali e perseguibili penalmente.
La questione è però più complessa se le imprese sono parte di contratti commerciali, ad esempio quando due aziende cooperano in una joint-venture per sviluppare nuovi prodotti e si accordano affinché l’una non rubi i dipendenti dell’altra.
Nei contratti di franchising, gli accordi di no-poaching sono clausole secondo cui un franchisee non può assumere un dipendente di altri franchisee della stessa catena. Ma se i contratti di franchising sono legittimi (come nel caso delle joint-venture), perché tanto clamore? Il dibattito è stato lanciato nel 2017, quando uno studio di Krueger e Ashenfelter ha mostrato che il 58 per cento dei contratti delle catene di franchising del loro campione conteneva una clausola di no-poaching. Il sospetto, quindi, era che la loro funzione non fosse favorire la concorrenza (e quindi l’innovazione), quanto ridurre gli stipendi di lavoratori poco qualificati e con salari già bassi.
Sono seguite una serie di cause promosse dai lavoratori contro catene famose, prima tra tutte McDonald’s (ancora in corso), ma anche azioni di portata più ampia, tra cui la “No-Poach Initiative”, lanciata dalla divisione antitrust dell’attorney general dello stato di Washington nel 2018. Nel giro di un paio di anni, l’azione legale ha indotto 237 catene di franchising a rimuovere le clausole di no-poaching dai contratti utilizzati a livello federale. Con quali effetti? Due studi recenti (Lafontaine et al., Callaci et al.) evidenziano che l’eliminazione delle restrizioni ha portato a un incremento dei salari del 5-6 per cento, confermando i possibili effetti negativi sui lavoratori di clausole di questo tipo.
La situazione in Italia
La Commissione europea ha chiarito che gli accordi di no-poaching tra imprese concorrenti sono illegittimi anche in Europa. Tuttavia, per quanto riguarda i contratti di franchising gli echi della campagna statunitense non hanno mai raggiunto il Vecchio Continente. Forse perché negli Stati Uniti le catene hanno obblighi di trasparenza stringenti (devono inviare il contratto alla Federal Trade Commission, nonché renderlo pubblico se vogliono operare in alcuni stati), mentre la normativa europea e, per quanto a noi noto, le legislazioni statali non prevedono nulla di simile. È perciò difficile rispondere alla domanda se le catene di franchising internazionali utilizzano clausole di no-poaching in Europa. E se sì, con quali effetti.
Uno di noi ha sfruttato un accesso civico presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) per accedere a sette contratti di franchising in Italia, analizzati in dettaglio in questo articolo per l’edizione monografica di Economia e Lavoro su monopsonio e mercati del lavoro. Le prime evidenze mostrano che non solo le clausole in Italia sono presenti, ma che dei sette contratti analizzati (tutti relativi alla stessa catena) in cinque (i più vecchi) si definiva, in caso di violazione, una penale di 2.600 euro al giorno per lavoratore (la sezione, senza andare troppo per il sottile, si intitola “Divieto di assunzione dipendenti”). Anche se non fosse mai stata applicata, la clausola potrebbe avere avuto forti effetti di deterrenza, come documentato nel caso dei patti di non concorrenza.
Negli Stati Uniti la rimozione delle clausole di no-poaching ha portato vantaggi significativi per i salari per due fattori chiave: l’elasticità del mercato del lavoro e la concentrazione. Ciò fa pensare che su questo lato dell’Atlantico, gli accordi di no-poaching potrebbero avere effetti ancora più rilevanti perché il mercato del lavoro italiano è molto più rigido di quello statunitense (intuitivamente, da noi è molto più difficile perdere il lavoro, ma anche trovarlo). In più, secondo alcune fonti (tra cui l’Online Job Advertisement data di Eurostat), la concentrazione dei mercati del lavoro sarebbe più alta in Europa, benché la diversa classificazione e struttura non permetta di trarre conclusioni definitive.
In conclusione, le evidenze negli Stati Uniti mostrano che le clausole di no-poaching nei contratti di franchising hanno un effetto negativo sui salari. Ma l’intervento delle autorità antitrust statunitensi ne ha limitato la diffusione, anche solo tramite la pubblicazione di linee guida.
In Europa – e in Italia – iniziative simili potrebbero avere un effetto altrettanto positivo. Proprio dal franchising si dovrebbe comprendere quanta influenza possano avere i contratti tra imprese nei mercati del lavoro, soprattutto quando restringono la mobilità dei lavoratori.
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