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Elogio della diplomazia, la sinistra e le zone rosse, California in fiamme, stragi in Congo |
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di
AlessANDRO TROCINO
Microcredito
per le aziende
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Che diplomazia Cecilia Sala è libera e può finalmente parlare e raccontare il suo calvario nella prigione di Evin. Lo fa con Mario Calabresi nel podcast di Chora (qui il racconto di Greta Privitera). È stato un successo personale della presidente del Consiglio, ma anche della diplomazia. Con lo «scoppiettante» – si spera solo metaforicamente – ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, ci sono anche altre riflessioni da fare sulla diplomazia, soprattutto in Europa. Ci pensa Luca.
Si sposti un po’ più in là Le zone rosse, con i Daspo di allontanamento, sono la risposta di destra alle esigenze di decoro e ordine, oltre che di sicurezza. Provvedimenti denunciati dagli avvocati come una «militarizzazione» delle città e come un restringimento dei diritti. Proviamo a ragionare e a capire anche perché, sul tema, la sinistra non dica nulla, o quasi.
Il fuoco della California Gli incendi che stanno assediando Los Angeles, i peggiori della sua storia, si sono diffusi a causa dei venti forti di questi giorni. Ma le vere cause del disastro, spiega Elena, sono più profonde: dipendono in parte dai cambiamenti climatici, in parte dagli squilibri di sistema sui quali è costruito questo paradiso americano.
Tacito e l’Ucraina Massimo Nava fa il punto sulla guerra in Ucraina e scrive: «Fino a quando entrambe le parti non giungeranno alla conclusione che non si può guadagnare più nulla continuando a combattere, la possibilità di sedersi attorno a un tavolo appare remota». E allora potrebbe tornare d’attualità una vecchia e triste massima di Tacito.
Il Congo e le esecuzioni Nel suo appuntamento settimanale con la nostra Rassegna, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, denuncia il rischio di esecuzioni di massa nella Repubblica Democratica del Congo.
La Cinebussola Paolo Baldini ci racconta «Io sono la fine del mondo», il film di Gennaro Nunziante, con Angelo Duro.
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Rassegna internazionale |
Riflessioni sulla diplomazia, ai tempi dei nuovi pesi massimi |
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«I buoni risultati della politica vengono dalla trattativa e dal compromesso, anche un po’ opaco, invece che dal prendersi a randellate nella recita della purezza», ha scritto Mattia Feltri nel suo «Buongiorno» sulla Stampa, commentando la «magnifica giornata» della liberazione di Cecilia Sala. Mario Giro, che un po’ di diplomazia se ne intende (ha lavorato per anni con la Comunità Sant’Egidio ed è stato viceministro degli Esteri prima con Letta, poi con Renzi), lo spiega così, su Domani: «Fare la faccia dura non serve: meglio un onorevole e permanente dialogo con tutti, amici, alleati, ma anche contrari, rivali, distanti. La liberazione di Cecilia è frutto di un lavoro di squadra che ha in comune una parola chiave: dialogo. Dialogo con gli Stati Uniti, intessuto senza indugio dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni con Donald Trump. Sentire, tra le altre cose, l’opinione americana era assolutamente necessario. Poi dialogo con l’Iran, un Paese lontano dalla nostra sensibilità, ma con il quale la diplomazia italiana ha sempre tenuto i canali aperti. (…) Infine dialogo tra le intelligence».
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Ma, al di là del fatto che, nota ancora Giro, la linea italiana «del figliol prodigo», secondo cui gli ostaggi (e Cecilia Sala di fatto lo era) si portano a casa costi quel che costi non è condivisa da tutti i Paesi (rileggere, per conferma, le pagine di Colum McCann, in Una madre, sul dialogo fra Diane Foley, madre di James W. Foley, il giornalista americano rapito nel Nord della Siria nel 2012 e poi decapitato dall’Isis nel 2014, e l’allora presidente Barack Obama), in queste ore, con l’imminente ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, si impongono anche altre riflessioni sulla diplomazia. Come quelle che fa Riccardo Redaelli su Avvenire.
Delle «sparate» di Trump su Groenlandia, Canale di Panama, Canada e Golfo del Messico – di cui ci siamo occupati abbondantemente nella Rassegna di ieri – Redaelli scrive: «Facile considerare questi proclami, invero folli, come delle boutade tipicamente trumpiane. Esse rivelano invece una visione dei rapporti internazionali basata puramente sulla forza e sulle trattative “do ut des”». E, come facevamo notare ieri, gli «uomini forti» di Pechino e Mosca (ma non solo) non possono che gioire alla prospettiva di indicare Washington e poter dire che tutto il mondo è paese. Per dirla con Redaelli quella che avanza è «una visione che mischia i mercanteggiamenti da bazar al bullismo dei più forti e che, paradossalmente, si sposa benissimo con l’approccio delle altre grandi potenze. Se la rozza aggressività di Putin sembra un paragone troppo azzardato – ma in fondo il cinismo del leader russo, che ha mandato a morire centinaia di migliaia di suoi giovani, può fargli alla fine ottenere quanto voleva – i metodi della Cina di XI Jinping sembrano molto più simili al nuovo stile americano: offre vantaggi commerciali e minaccia le maniere forti per ottenere il ritorno di Taiwan a Pechino. E, in fondo, questi metodi vanno bene anche all’India e alle monarchie del Golfo, potenze che praticano relazioni bilaterali basate rigidamente sulla loro convenienza e guardano con grande disprezzo alla diplomazia multilaterale».
Ovviamente, c’è chi vince e c’è chi perde in questo nuovo corso della diplomazia globale. E secondo Redaelli si può già farne la lista: «I grandi sconfitti di questa logica di potenza saranno, ovviamente, il diritto internazionale e le istituzioni internazionali, già umiliate dall’impotenza dinanzi ai conflitti in Ucraina e a Gaza, per citare gli esempi più evidenti. Se quanto conta sarà solo la tua forza militare e la tua spregiudicatezza nel cercare l’accordo migliore per te, allora chi ancora guarda all’Onu e alle corti di giustizia internazionali apparirà solo come un idealista patetico fuori tempo. Ma anche l’Unione europea, con i suoi complicati – e spesso irritanti – meccanismi e con le sue lentezze continuerà la sua triste involuzione. Perché a contare sarà solo la scaltrezza dei suoi leader nel porsi sotto la protezione del potente del momento o di profittare dei problemi di un suo vicino per firmare qualche contratto in più. Detto per inciso, anche nel caso di Cecilia Sala, l’Europa è sembrata fin troppo svagata».
Si può, però, andare un po’ più nello specifico. Ed è quel che fa, sul Financial Times, Janan Ganesh. Che, partendo dai Paesi presi di mira da Elon Musk con i suoi tweet al vetriolo su X (Germania, Gran Bretagna, ma anche l’Italia e i suoi giudici, anche se Ganesh non la cita), conclude che «forse uno dei peggiori handicap che una nazione possa avere in questo secolo è essere di scala media», ossia «abbastanza grandi da suscitare l’interesse generale, ma non così grandi da creare o distruggere le fortune di un plutocrate».
La faccenda va al di là delle dimensioni dei palcoscenici che Musk ritiene idonei a quelle del proprio ego (e dei propri interessi: per dirne una, pur proclamandosi paladino della libertà d’espressione si guarda bene dall’attaccare la Cina, Paese-chiave per Tesla). E riguarda la crescente sproporzione fra il peso delle grandi potenze e quello delle medie. Per usare uno degli esempi di Ganesh: «La statistica più sciocca nel discorso pubblico britannico è che siamo la “sesta economia più grande del mondo”, che è come essere la terza squadra di calcio di Manchester. Non rivela che il distacco dal primo posto è maggiore di quello dal ventesimo». Di più, anche se non tutti i Paesi grandi sono grandi potenze (vedi l’Indonesia) «in un mondo di tre giganti – due dei quali, India e Cina, rappresentano un terzo dell’umanità – non è pacifico che avere 70 milioni di persone sia molto più vantaggioso che averne 10 milioni. Consideriamo la spesa per la difesa. In termini assoluti, il bilancio annuale della Svezia (9 miliardi di dollari) è più vicino a quello della Gran Bretagna (75 miliardi di dollari) di quanto non lo sia quello di quest’ultima a quello cinese (stimato in 296 miliardi di dollari)».
C’è un modo per sfuggire alla maledizione di essere un peso medio in un un ring globale di pesi massimi? Secondo Ganesh sì. Peccato sia il più impopolare che si possa al momento immaginare: «C’è un solo modo per ovviare a questo problema, e sembra trasgressivo anche solo mormorarlo di sfuggita in mezzo a tanto nazionalismo diffuso. Nel secolo scorso, la ragione dell’integrazione europea era il consolidamento della pace. In questo, si tratta di far valere i numeri del continente nel mondo esterno. Come obiettivo, è meno altisonante, ma non per questo meno esistenziale, non con gli Stati Uniti che fanno da sé, o con una Cina assertiva, o con un’India in ascesa, o con una Russia che sovrasta per popolazione qualsiasi nazione europea, quasi sempre di almeno il doppio. Se l’innato romanticismo dell’idea non spinge più gli elettori a “un’Unione sempre più stretta”, non è da escludere che lo faccia il crudo istinto di sopravvivenza».
Inutile negare che, in verità, ci sono molti indizi che – appelli e ricette di Mario Draghi o no – la «triste involuzione» dell’Unione europea di cui parla Redaelli – e con essa la corsa individuale a «porsi sotto la protezione del potente del momento» – proseguirà. Ma, a chi si augura che sia così, forse non è superfluo ricordare quel vecchio adagio: «Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo».
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Rassegna dei diritti |
Zone rosse, il silenzio della sinistra e il via libera della destra anti green pass |
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La sinistra non è a suo agio con i temi della sicurezza. Non lo è mai stata e ha oscillato in passato tra l’indifferenza, come se il problema non esistesse, e un atteggiamento emulatorio della destra, un cattivismo esibito che però, essendo di seconda mano, finiva per non ottenere l’effetto sperato, ovvero non recuperava il consenso perduto tra gli elettori spaventati. Il determinismo sociale – il crimine come effetto del disagio e degli squilibri economici – ha finito per imporre una visione sociologica spesso realistica ma agli occhi dei cittadini molto fumosa e giustificatoria, mentre la destra ha cavalcato il solo libero arbitrio, come se delinquere fosse la risultante di fossette occipitali lombrosiane o di una predisposizione genetica, magari di tipo etnico.
Ai suoi tempi, nel 2005, un sindaco dei Democratici di sinistra, come Sergio Cofferati, riusciva a dire che «la sicurezza è di sinistra» e le cronache antipatizzanti raccontavano, con sgomento ma anche quasi come un piacere proibito, che il «cinese» – o il sindaco-sceriffo, come lo chiamavano – inseguiva i lavavetri, sbatteva gli studenti fuori dal centro, mandava la polizia contro i giovani e demoliva le baracche degli immigrati. Anni dopo, nel 2017, la stessa frase sulla sicurezza la ripeteva Marco Minniti, il ministro dell’Interno dem autore di un decreto sull’immigrazione considerato securitario e persino razzista da una parte della sinistra tradizionale e radicale. Walter Veltroni, da segretario del Pd, spiegava che «la legalità non è di destra né di sinistra: è un diritto fondamentale dei cittadini». E martedì sul Corriere ha scritto che la sinistra sbaglia a non declinare nel suo approccio anche questo tema, spesso derubricato a un fenomeno solo percepito e non reale. Accusa palesemente, ma non direttamente, rivolta alla segretaria Elly Schlein, che punta tutto su sanità e lavoro. Eloquente il finale d’articolo: «Se non si vuole che certe idee violente, razziste, autoritarie si diffondano ancora più velocemente, bisogna avere il coraggio di capire che la vita concreta dei cittadini di questo tempo è fatta di tre priorità. Tre, non due. Lavoro, sanità e sicurezza».
E ora? I dati dicono quello che la destra finge di non vedere e che cioè i reati gravi in Italia sono costantemente in calo da anni. Ma anche che, complice un’immigrazione clandestina e senza diritti che proprio la destra per paradosso favorisce (vedi Bossi-Fini), la microcriminalità attecchisce sempre di più. Per la prima volta dal 2013 c’è stato un aumento dei crimini denunciati. Rispetto a tre anni fa c’è stato un incremento del 4,9 per cento. Ma sono le grandi città a soffrire di più. Se parliamo di dati percepiti, basta parlare con chi gestisce i negozi in quartieri come Trastevere a Roma o Brera a Milano per sapere che i furti con e senza scasso nei locali sono sempre più frequenti e gli scippi pure. Ma i dati confermano l’impressione: a Milano in tre anni c’è stato un aumento del 16,7%.
Che fare? Il governo ha pensato di agire con le zone rosse e con i Daspo urbani. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi il 30 dicembre ha inviato una direttiva ai prefetti per chiedergli di individuare aree urbane dove vietare la presenza di «soggetti pericolosi con precedenti penali». A Milano, per esempio, dal 30 dicembre 2024 al 31 marzo 2025 si sono scelte Milano Centrale, Porta Garibaldi e Rogoredo, le zone adiacenti a piazza del Duomo, nonché quelle della Darsena e dei Navigli. Qui ci sarà un divieto di stazionamento per le persone considerate pericolose in base al loro comportamento e ai loro eventuali precedenti. Quali sono? Le persone «che assumono atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti e che risultino destinatari di segnalazioni da parte dell’autorità giudiziaria» per reati legati a droga, reati contro la persona o contro il patrimonio e detenzione abusiva di armi.
Gli avvocati del Consiglio direttivo della Camera penale di Milano hanno pesantemente criticato in una nota il provvedimento. Si tratta, dicono, di categorie evanescenti. Cosa sono gli atteggiamenti aggressivi? Cos’è un concreto pericolo per la sicurezza pubblica? I penalisti hanno protestato, notando però che intorno a loro c’è «un silenzio assordante». E aggiungendo: «Sorprende che la Prefettura adotti tale provvedimento nonostante analoghe ordinanze siano state annullate dai giudici amministrativi proprio per le ragioni esposte».
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Già, è strano questo silenzio. Perché con questi Daspo si mettono in gioco libertà fondamentali e per la prima volta si comprime il diritto di libera circolazione dei cittadini sulla base non di provvedimenti giudiziari o di esigenze sanitarie ma di atti prefettizi (i prefetti dipendono dal governo). Come dice il presidente delle Camere penali italiane, Francesco Petrelli, si tratta di «pericolose compressioni per i diritti di libertà della persona in chiave securitaria», di «una progressiva militarizzazione del tessuto urbano». Gli avvocati notano che nelle parole del prefetto di Milano «addirittura si evoca una sorta di presunzione di pericolosità per i giovani extracomunitari di seconda generazione».
Della legittimità dei Daspo (ci sono anche quelli sportivi) si discute da tempo. Si tratta di una misura di prevenzione atipica, ovvero di un atto di polizia che arriva prima di un intervento giudiziario. Il Daspo urbano nasce come misura «a tutela del decoro di particolari luoghi» e può durare fino a due anni. Fu proprio Minniti a istituirlo, con un decreto. Decoro e vivibilità sono i parametri citati, che sarebbero messi in pericolo da comportamenti di «pericolosità sociale» piuttosto evanescenti e per questo a rischio di bocciatura, perché contrari alle regole della Convenzione europea dei diritti umani.
Nella formulazione originaria del decreto Minniti, il Daspo serviva ad allontanare chi veniva colto in stato di «manifesta ubriachezza», chi commetteva atti «contrari alla pubblica decenza», i parcheggiatori abusivi e chi pratica «accattonaggio molesto». Prima il decreto Salvini e poi quello Lamorgese hanno ampliato l’ambito di applicazione e aumentato le pene. In quello della ministra del Conte II, si prevede che «i soggetti che sono stati condannati anche con sentenza non definitiva, negli ultimi tre anni, per reati di vendita o cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope non possono stare nelle immediate vicinanze di scuole, plessi scolastici, sedi universitarie, locali pubblici o aperti al pubblico o pubblici esercizi che si trovino nei luoghi in cui sono avvenuti i fatti per i quali è scattata la condanna penale». Ultimo, ma probabilmente non ultimo, è arrivato il decreto Caivano, che ha introdotto una nuova stretta, con aumento delle pene ed estensione dell’operatività per moderare la cosiddetta «movida». Infine, la direttiva di Piantedosi, apparentemente rivolta al Capodanno ma della durata di qualche mese.
Nella versione più attuale, i parametri sono quelli della «segnalazione» e degli «atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti». Segnalazione, dunque: non sulla base di precedenti penali, di condanne sia pure di primo grado, ma di semplici denunce. Considerando che diversi di questi reati sono perseguibili a querela di parte, basta essere denunciato da qualcuno e disporre di una brutta faccia, di quelle che possono sembrare «aggressive» per essere allontanati per mesi da una zona, dove magari si ha un posto di lavoro o una casa. Per andare dove? Duecento metri più avanti o più indietro, dove poter continuare a essere «minaccioso» o aggressivo»? E chi non ha segnalazioni ma è comunque aggressivo o molesto? Lui può restare. Sembrerebbe una clamorosa discriminazione, sulla base della quale le forze dell’ordine possono decidere chi va dove e perché. Altro che zone rosse della pandemia, altro che green pass. Gli stessi che lo contestavano, che gridavano «li-ber-tà» nonostante le evidenti e urgenti esigenze sanitarie, qui non battono ciglio, anzi sono loro stessi a sostenere la compressione del diritto di circolazione. Gli avvocati, vox clamans nel deserto, sono gli unici ad aver sottolineato questo clamoroso slittamento dei diritti fondamentali dell’individuo.
Che, poi, a voler andare fino in fondo nell’idea di ordine, decoro e sicurezza, si potrebbe pensare, in un futuro distopico, di vietare la circolazione, oltre i 100 metri dal domicilio, a chi ha avuto una condanna per furto in abitazione o rapina. Si potrebbe vietare di salire su un’auto, anche nel posto passeggeri, a chi ha avuto una «segnalazione» per ubriachezza. Si potrebbe far divieto di avvicinarsi a muri o monumenti a writer e a segnalati per vandalismo. Si potrebbe proibire l’uso di orologi e sveglie di ogni tipo ai ladri di Rolex.
A proposito, ma il Pd che dice? Nulla, silenzio. Forse perché consapevoli del peccato originale, ovvero del contributo iniziale ai Daspo di Minniti. O forse perché di sicurezza non ne vogliono proprio parlare, come dice Veltroni. In realtà non è del tutto vero che non ne parlino, ma è vero che c’è una sottovalutazione. Nei due sensi. Da una parte, nel non segnalare Daspo e zone rosse come provvedimenti liberticidi, di restringimento poliziesco delle libertà personali: si preferisce fare grandi discorsi retorici sull’antifascismo e sui cori di Acca Larentia, ma poi non si vedono i piccoli ma continui passi di questa maggioranza nel segno di una stretta autoritaria. Dall’altra non si sottolinea abbastanza che la sicurezza è fondamentale, ma non solo nel senso della repressione poliziesca e prefettizia.
Lo ha spiegato bene a Gabriele Guccione sul Corriere il sindaco dem di Torino Stefano Lo Russo: «Io penso che creare sicurezza voglia dire ridurre le diseguaglianze, riqualificare le aree in difficoltà e investire sull’inclusione di chi vive ai margini. L’obiettivo deve essere migliorare la vita delle persone, non soffiare sulle divisioni, ma provare a ricomporre. La storia della sinistra ci insegna che sicurezza e protezione sociale sono strettamente legate, ed è essenziale agire sulle cause profonde del disagio per restituire serenità ai cittadini. Anche misure come il Daspo urbano o la presenza fissa dell’esercito nei quartieri rischiano sul lungo periodo di non essere così efficaci: nella mia città, in corso Palermo, è stato messo l’esercito in una piazza dove si spaccia. Il risultato, purtroppo, è stato più spostare il problema di qualche centinaio di metri che risolverlo».
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Rassegna ambientale |
L’inferno in paradiso. Perché è così difficile fermare gli incendi a Los Angeles |
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La parola più temuta è «ember», che in inglese indica i tizzoni di brace volanti. Trasportati dal vento, possono arrivare anche a tre chilometri di distanza. Secondo uno studio dell’Insurance Institute for Business & Home Safety (Ibhs) americano, il 90% delle case e degli edifici bruciano a causa di questi frammenti ardenti che volano. È per questo che gli incendi della California scoppiano quando soffiano i venti di Sant’Ana provenienti da Nevada e Utah, dalle montagne verso le zone più abitate. Come in questi giorni, quando hanno raggiunto i 130 chilometri orari. «Se qualcuno lascia una finestra aperta, una sola di quelle braci (ne basta una) può finire su un telo. Oppure può bruciare la zanzariera della porta. Oppure i mobili del patio. E poi c’è un incendio esterno, con un’enorme quantità di calore che si sprigiona da questa casa. A quel punto le due case vicine diventeranno un problema. Poi le tre case di fronte diventeranno un problema. Che si alimenta da solo e diventa sempre più grande» ha spiegato un vigile del fuoco californiano al National Geographic. Si sono diffusi così i sei incendi che stanno assediando Los Angeles: il più grande di sempre a Pacific Palisades, una delle zone più ricche e belle della città, tra Malibu e Santa Monica; quello sulle colline che sovrastano Hollywood Boulevard e la sua Walk of Fame; un altro a est a di Eaton (vicino a Pasadena) e poi quelli di Hurst, Lidia e Woodley. Nel complesso hanno ucciso finora 5 persone, costringendone oltre 100 mila a lasciare le loro case e lasciandone almeno 250 mila senza energia elettrica. Hanno bruciato un’area di 108 chilometri quadrati (quasi come l’intera città di San Francisco) e distrutto migliaia di edifici. Ma se gli incendi californiani diventano sempre più potenti e pericolosi, trasformando un paradiso americano in un vero e proprio inferno, è dovuto a una serie di concause: generali (come i cambiamenti climatici) e specifiche della California e delle sue contraddizioni.
I cambiamenti climatici allungano la stagione degli incendi Sono mesi che nella California del Sud piove pochissimo. «La California meridionale tende ad essere più secca di quella settentrionale, ma quest’anno la disparità è insolitamente estrema. La maggior parte della California settentrionale ha ricevuto oltre il 100% delle precipitazioni medie fino al 1° ottobre (cioè il doppio, ndr), mentre la maggior parte della California meridionale ne ha ricevute meno del 20% (un quinto, ndr), secondo il Water Watch del Dipartimento delle Risorse Idriche. L’inizio secco dell’inverno nella California meridionale arriva dopo un’estate caratterizzata da un caldo prolungato e da record che ha cotto il paesaggio e gli alberi e le sterpaglie» spiega il New York Times.
Negli ultimi anni l’aumento delle temperature globali ha allungato la stagione degli incendi in California: oggi inizia prima e finisce dopo, praticamente non finisce mai. Tipicamente si chiudeva in autunno, quando le piogge iniziavano a inumidire il terreno e la vegetazione. Ora si prolunga fino all’inverno inoltrato: «La California ha 78 “giorni di fuoco” (in cui le condizioni sono mature per scatenare gli incendi) in più all’anno rispetto a 50 anni fa» scrive il sito CalMatters. «La vegetazione lungo la costa, solitamente umida, è spesso così arida che non ha bisogno di venti per alimentare gli incendi. Inoltre, nell’estremo nord, le cosiddette “foreste di amianto” della California hanno perso la loro inespugnabilità. Incendi massicci hanno distrutto le dense e umide foreste pluviali dove il cambiamento climatico ha portato via lo strato protettivo di nebbia e foschia della regione». Oggi le città, le zone della California e i loro dintorni sono sempre più ricche di «combustibile»: vegetazione secca facilmente incendiabile.
«Le aree bruciate in estate nella California settentrionale e centrale sono quintuplicate nel periodo 1996-2021 rispetto al periodo 1971-1995. Inoltre, 10 dei più grandi incendi selvaggi della California si sono verificati negli ultimi 20 anni, cinque dei quali solo nel 2020» si legge su Drought.gov, il sito del Sistema informativo nazionale sulla siccità americano. «Quasi tutto l’aumento delle aree bruciate osservato nell’ultimo mezzo secolo è dovuto ai cambiamenti climatici causati dall’uomo. Si stima che dal 1971 al 2021 i cambiamenti climatici causati dall’uomo abbiano contribuito a un aumento del 172% delle aree bruciate, con un aumento del 320% dal 1996 al 2021. Nei prossimi decenni si prevede un ulteriore aumento delle aree boschive bruciate annualmente, compreso tra il 3% e il 52%».
La California è sempre più insostenibile È lo Stato che — complice la sua Hollywood — incarna di più il sogno americano. La frontiera dell’Ovest diventata paradiso in terra, con il suo clima mite (nel centro e sud dello Stato), i paesaggi meravigliosi, la ricchezza. Attrattive che hanno reso la California lo Stato più popoloso degli Usa, ma anche quello più insostenibile. Dal punto di vista sociale, prima di tutto: il prezzo delle case ormai è così alto che ampie fasce della classe media sono costrette a lasciare lo Stato e c’è un numero altissimo di senzatetto, anche tra le persone che lavorano: circa un quarto di tutti gli americani senza casa vive in California. Le case che sono bruciate in questi giorni a Pacific Palisades costavano ognuna svariati milioni di dollari: il valore medio di un’abitazione nella zona è di 3,5 milioni di dollari. La richiesta immobiliare ha portato anche a una maggiore urbanizzazione e alla diffusione di abitazioni in zone a rischio incendio, aumentando la probabilità di innescare roghi. Le infrastrutture energetiche inoltre sono manutenute male: molti incendi iniziano quando i venti abbattono pali della luce, creando scintille che innescano i roghi.
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Gli idranti a secco di Los Angeles A tutto questo si aggiunge l’insostenibilità di Los Angeles: la città praticamente non ha acqua. Il 10% delle sue forniture idriche arrivano dalla falda locale, un altro 2% è acqua purificata e riciclata dagli scarichi delle acque bianche cittadine. L’88% dell’acqua però viene portata da lontano: attraverso l’acquedotto del fiume Colorado, lungo 390 chilometri (inizia al confine con l‘Arizona), e dalla Valle di Owens, al Confine del Nevada, che a causa del prelievo di acqua, all’inizio del 900 è stata trasformata da una fertile zona agricola in un deserto. È anche per questo che nei giorni scorsi, quando i vigili del fuoco hanno pompato acqua dal sistema idrico cittadino per spegnere gli incendi, molti idranti sono rimasti a secco. Il Dipartimento dell’Acqua e dell’Energia di Los Angeles ha attinto agli acquedotti e alle falde acquifere nel sistema, ma la domanda è stata così alta che non è bastata a riempire tre serbatoi da 3,7 milioni di litri nelle colline di Pacific Palisades che aiutano a pressurizzare gli idranti del quartiere.
La mancanza d’acqua ha dato subito adito a polemiche politiche e il presidente eletto Donald Trump ha accusato la sindaca di Los Angeles Karen Bass e il governatore della California Gavin Newsom di non distribuire abbastanza acqua alle aziende agricole e alle città per proteggere le specie animali in pericolo, in particolare una di pesci che vive nei bacini della California del Nord. Ma in realtà è il contrario: è Los Angeles a essere insostenibile e non avere le risorse idriche necessarie a rifornire la sua popolazione.
Le case americane Gli incendi si propagano molto facilmente anche a causa della struttura urbanistica di Los Angeles. Ancora una volta, è ciò che la rende un paradiso a farla diventare un inferno: le case di legno unifamiliari circondate da giardini di cui è fatta quasi interamente la città. Sono bellissime da viverci e insieme estremamente vulnerabili al fuoco. Il National Geographic racconta un esperimento che mostra come le tipiche case californiane si incendiano facilmente. L’Ibhs, Istituto di Assicurazione per la Sicurezza delle Aziende e delle Case, ha costruito un edificio a due facce, uno con i materiali tipici di Los Angeles e molte altre città americane (rivestimento in legno, grondaie in vinile, finestre a un solo pannello, giardini con aiuole ricoperte di pacciame), l’altro con materiali resistenti al fuoco (copertura di cemento, grondaie in metallo, finestre a doppio vetro, un’area ricoperta di ghiaia intorno alle parete). Poi lo ha dato alle fiamme: «I risultati sono stati sorprendenti: In 10 minuti il lato tradizionale della casa ha preso fuoco. Il lato resistente al fuoco non ha fatto scintille» scrive il National Geographic.
I costi per la comunità Secondo le stime di AccuWeather, gli incendi di Los Angeles hanno causato danni e perdite economiche per 52-57 miliardi di dollari. Secondo J.P. Morgan Insurance le assicurazioni dovrebbero coprire almeno 10 miliardi di dollari di danni. Ma in California sta diventando sempre più difficile assicurarsi contro le catastrofi naturali portate dai cambiamenti climatici. A marzo State Farm, la maggiore società assicuratrice di case dello Stato, ha annunciato che avrebbe tagliato circa 72 mila polizze su immobili considerati troppo a rischio, il 2% di tutte le sue polizze in California, perché sono diventate troppo costose per la compagnia.
È un fenomeno sempre più diffuso, proprio a causa dei cambiamenti climatici e proprio quando i cittadini hanno più bisogno delle assicurazioni. Solo nel 2024 uragani, tempeste, inondazioni e altri disastri naturali hanno causato 140 miliardi di dollari di «perdite assicurate» (cioè coperte dalle assicurazioni) nel 2024 a livello globale, in aumento rispetto al 2023). Tali importi superano di gran lunga le medie, al netto dell’inflazione, degli ultimi 10 e 30 anni. Quest’anno è stato il terzo più costoso per le assicurazioni dal 1980. Le perdite totali dovute a catastrofi naturali, comprese quelle non coperte da assicurazione, sono state di 320 miliardi di dollari nel 2024 (In Europa, lo scorso anno le catastrofi naturali hanno distrutto beni per un valore di 31 miliardi di dollari, di cui 14 miliardi assicurati).
L’incendio di Los Angeles è solo l’ultimo esempio di una tendenza sempre più preoccupante, che ci obbliga a trovare in fretta forme di adattamento: i cambiamenti climatici rendono sempre più insostenibili i nostri attuali modelli di sviluppo. Molti leader mondiali, dall’Europa agli Stati Uniti, stanno facendo marcia indietro sulle politiche di mitigazione climatiche perché sono costose per i cittadini. È vero. Ma anche non fare niente sta diventando sempre più costoso. Troppo costoso.
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Rassegna internazionale |
Ucraina, quando finirà l’inferno |
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Saldo e stralcio
Veterani ucraini sono andati in pellegrinaggio in Grecia, sul monte Athos, al monastero ortodosso. Alcuni sono mutilati, altri feriti. Altri ancora sono usciti indenni dai combattimenti, ma sono tornati a casa con l’anima spezzata. Cercano conforto nella preghiera. La speranza è perduta. La pace è ancora lontana. Il ritorno alla normalità è questione di generazioni. Non resta che baciare la Madonna della Porta del Cielo, carica di ex-voto in oro e argento, fare suppliche, accendere candele. La guerra ha diviso anche la chiesa ortodossa e in alcuni monasteri della Grecia, sotto influenza russa, i veterani ucraini non sono benvenuti.
A Capodanno, il presidente Volodymyr Zelensky ha promesso che «farà di tutto» per porre fine alla guerra entro il 2025, mentre si avvicina il terzo anniversario dell’invasione russa e – per la storia – si è superato il decennio del conflitto a bassa intensità nel Donbass. Fare di tutto, senza sapere se e come, significa poco, anche perché gli scontri al fronte, i lanci di missili da ambo le parti e i bombardamenti russi sulle infrastrutture civili si susseguono con sempre maggiore ferocia e intensità. Oltre mille giorni di guerra non hanno cambiato gli scenari, i termini delle opposte propagande, la narrazione ufficiale del conflitto nelle capitali occidentali, salvo critiche di alcuni analisti e iniziative in controtendenza in alcune capitali dell’est, generalmente liquidate come filo russe. Il risultato è la bancarotta morale, fisica, economica e politica di tutti i protagonisti. La Russia, convinta di risolvere il problema ucraino in pochi giorni, ha invece subito enormi perdite umane e materiali ed è stata costretta a una guerra di lunga durata che la sta dissanguando. L’Ucraina si è cullata nella narrazione dell’eroica resistenza patriottica e nell’illusione di essere difesa ad oltranza e senza condizioni dai Paesi occidentali e si trova oggi a fare i conti con la stanchezza dell’opinione pubblica interna e occidentale e con le sconfitte sui campi di battaglia. Il Paese è devastato dalle bombe. Milioni di ucraini sono riparati all’estero. Le speranze di pace sono condizionate a concessioni sui territori contesi, in pratica al casus belli iniziale del conflitto.
Quanto agli alleati occidentali, si sta finalmente alzando il velo sulla cieca convinzione della vittoria ucraina e della conseguente sconfitta russa, sul grande inganno mediatico che ha trascinato all’inferno decine di migliaia di vite, ridotto un Paese allo stremo per generazioni, aggravato la spesa delle famiglie europee per l’energia, innescato la crescita di movimenti euroscettici e populisti esposti peraltro alla propaganda del Cremlino a tutto discapito dell’unità europea. Il blocco delle forniture di gas russo è un’altra mazzata che peserà sugli europei e andrà a vantaggio di altri Paesi fornitori. Può cantar vittoria soltanto il comparto militare e tecnologico, che ha fatto lievitare a dismisura le spese degli Stati per armamenti, ingrassato mercanti e trafficanti, indebitato per generazioni gli ucraini.
La contropartita dovrebbe almeno essere il futuro sistema di sicurezza e difesa europea e il rafforzamento del fianco orientale della Nato, comprendendo l’Ucraina. Ma questo scenario, almeno oggi, è solo un auspicio reiterato ad ogni vertice, mentre cresce invece la minaccia dello scontro irreparabile, del baratro nucleare, sessantadue anni dopo la crisi di Cuba.
L’Ucraina vive così il terzo inverno al gelo, mentre scarseggiano anche gli aiuti per ripristinare la rete elettrica e il sistema di riscaldamento in gran parte distrutti dai bombardamenti.
Una testimonianza emblematica di un Paese allo stremo la dà una leggenda del calcio ucraino, l’ex attaccante del Milan Andriy Shevchenko, attuale presidente della Federazione Ucraina. E si sa che il calcio è qualche cosa di più di uno sport quando sono in ballo lo spirito di appartenenza e la nazione. Le partite si giocano all’estero o a porte chiuse. «Oltre 200 membri della comunità calcistica hanno perso la vita dall’inizio di questa guerra», ha rivelato Shevchenko.
Un altro aspetto della situazione del Paese è il crescente numero di dimissioni nell’establishment governativo e militare e di diserzioni nelle file dell’esercito. Secondo varie fonti ucraine riportate dal Courrier International, è finita nel mirino la 155ᵉ brigata meccanizzata delle forze armate, soprannominata «Anna di Kiev», in parte addestrata dalla Francia. Gli investigatori ucraini hanno deciso l’arresto di un comandante, accusato di avere lasciato il servizio e incitato i suoi uomini a farlo. Il giornalista ucraino Yuri Boutoussov ha raccontato che 1700 soldati hanno disertato anche prima che la loro unità fosse schierata al fronte. Cinquanta si sarebbero dati alla macchia durante l’addestramento in Francia, circostanza confermata anche da fonti dell’esercito francese. La brigata «Anna di Kiev» prende il nome dalla moglie del re Enrico I di Francia ed è stata equipaggiata con veicoli da trasporto VAB, carri armati AMX-10 e cannoni semoventi Caesar, oltre a munizioni e missili antiaerei e anticarro.
Al di là di diserzioni e scandali, ciò che appare chiaro è che il campo di battaglia ricorda sempre più una mortale partita a scacchi, il cui esito esclude lo scacco al re e propende allo stallo, mentre cavalli, alfieri e pedoni continuano a morire. Entrambe le parti puntano a mobilitare un numero sufficiente di soldati per continuare a combattere, mentre gli attacchi missilistici colpiscono le infrastrutture sia in Ucraina sia in Russia, dove sono state colpite basi militari. Secondo una stima del Wall Street Journal il numero di soldati uccisi o feriti dall’inizio della guerra in Ucraina avrebbe superato la soglia simbolica del milione. Una stima ufficiosa ucraina indicava la cifra di ottantamila morti e quattrocentomila feriti. Le stime delle perdite russe parlano di duecentomila morti e quattrocentomila feriti. Ma sono stime per difetto. Gli ordini di mobilitazione non compensano diserzioni e perdite. Se si aggiungono profughi e diserzioni, non è difficile calcolare il pesante effetto sulla demografia dell’Ucraina per gli anni futuri. Anche in Russia premi e alti stipendi non bastano a compensare le perdite e a reclutare forze fresche. Il paradosso è che si continuano ad inviare e a produrre armi, ma ci sono sempre meno uomini da mandare al macello.
Ma fino a quando entrambe le parti non giungeranno alla conclusione che non si può guadagnare più nulla continuando a combattere, la possibilità di sedersi attorno a un tavolo appare remota. Se è vero che l’opinione pubblica ucraina è stanca di guerra, è anche vero che la grande maggioranza degli ucraini, dopo tanti sacrifici, non accetterebbero la perdita di territori e tempi indefiniti per l’ingresso del Paese nella Ue e nella Nato. E se è vero che anche il Cremlino vorrebbe chiudere la partita, non sono immaginabili la rinuncia all’obiettivo minimo, ovvero l’annessione del Donbass, e l’esclusione della presenza Nato ai propri confini.
La stanchezza russa e ucraina potrebbe combinarsi con il desiderio di Donald Trump di fare la storia. Non casualmente, si illudono in molti sulle capacità taumaturgiche del presidente americano, l’unico che potrebbe forse riscrivere le pagine di Tacito: «Hanno fatto il deserto e lo chiamano pace».
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Il Punto con Amnesty International |
Il rischio di esecuzioni di massa nella Repubblica Democratica del Congo |
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Il 5 gennaio il ministro della Giustizia della Repubblica Democratica del Congo, Constant Mutamba, ha annunciato che oltre 170 persone, a suo dire legate a gruppi criminali comunemente noti come «kuluna» o «banditi», sono state trasferite dalla capitale Kinshasa alla prigione di Angenga, nel nord-ovest del paese, per essere messe a morte. Mutamba ha dichiarato che le persone trasferite hanno un’età compresa tra i 18 e i 35 anni e che sarebbero coinvolti in episodi di violenza urbana.
C’è dunque il rischio imminente di esecuzioni di massa. Secondo le autorità congolesi, tornare a usare la pena di morte contribuirebbe a combattere la criminalità urbana, una tesi smentita da tutti gli studi disponibili, soprattutto da quelli realizzati negli Usa sul rapporto tra pena di morte e criminalità, secondo i quali la pena capitale non ha alcun effetto deterrente particolare nei confronti della criminalità comune né tantomeno organizzata.
L’anno scorso a marzo, il governo della Repubblica Democratica del Congo aveva annunciato l’intenzione di riprendere le esecuzioni dopo una pausa di due decenni. Da allora, le condanne a morte emesse da tribunali militari sono aumentate vertiginosamente. Queste condanne spesso derivano da processi iniqui, in particolare contro presunti membri di bande criminali e gruppi armati.
La prigione di Angenga è tristemente nota perché in passato decine di detenuti sono morti di fame e malattie. Insomma, il trasferimento è una punizione in sé: chiunque venga trasferito dal proprio luogo di detenzione dovrebbe essere trasferito in una struttura facilmente raggiungibile da avvocati, familiari e organizzazioni per i diritti umani e la loro ubicazione dovrebbe essere comunicata a tutti i soggetti interessati.
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La Cinebussola |
«Io sono la fine del mondo», lo show di Duro, solo contro tutti |
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Se la contro-comicità di Angelo Duro ha un avvenire al cinema lo vedremo tra poco, quando si faranno i conti al box office. Di sicuro l’attore siciliano, 42 anni, ha un presente e un futuro teatrale ben tracciato: è riconoscibile e originale, gestisce con saggezza repertorio e apparizioni in palcoscenico, sa fiutare i disagi giovanili traducendoli in battute senza lieto fine. Duro è un vulcano di cattiveria, un sociopatico protagonista della stand up comedy all’italiana: un ispido bamboccione, antisociale, arrabbiato, vendicatore di sé stesso, razzista globale, misogino, intollerante, anaffettivo, in pieno conflitto generazionale. Ricorda il primo Paolo Villaggio, con quel cinismo da conquista. Nato con le Iene nei primi Anni Dieci, con un occhio rivolto alla precarietà dei giovani e alle loro rabbie, ma pronto ad attaccarne il lassismo e l’arrendevolezza, è un incazzato opportunista che non si identifica con nessuna categoria civile.
Un gatto selvatico, refrattario all’amore. Uno che alimenta il proprio ego mordendo i polpacci al prossimo. Duro e puro. Il suo storico spettacolo teatrale, tanto per rendere l’idea del personaggio, si intitolava Perché mi stai guardando?. Il suo primo romanzo si chiamava Piano B, edito da Mondadori, mentre il suo primo film è del 2016: Tiramisù di Fabio De Luigi. Tempi lunghi per calibrare un personaggio esplosivo ma da prendere a piccole dosi, legato all’imbarbarimento sociale e all’egoismo di massa.
Ovvio che Duro è un ex adolescente in carenza d’affetto e si difende attaccando, provocando, distruggendo. No, non è facile dare una parte ad Angelo Duro: la maschera invade la storia, la divora. No, non è facile neanche per un regista navigato come Gennaro Nunziante, storico collaboratore di Chicco Zalone e di altre star del cabaret traslocate con successo al cinema. Qui, per esempio, Duro è un autista che raccoglie adolescenti ubriachi fuori dalle discoteche di Roma e li riporta a casa. Chiaro che, se gratti via quella rabbia, affiora la buona stoffa. I genitori, che vivono a Palermo, perdono colpi e neanche più si ricordano di avere quel figlio ribelle scappato via da anni. Quando, dopo anni di cure a mamma e papà, la sorella, esausta, gli chiede di sostituirla, scatta il meccanismo di vendetta. I genitori autoritari e castranti sono ora nelle mani del figliol prodigo. Niente empatia, solo rivalsa.
Nunziante prepara a Duro la comfort zone dei suoi spettacoli, il luogo per far risaltare il suo talento di giovane Grinch. Tra teatro e cinema la linea di demarcazione è sottile. Duro non perde di vista sé stesso: e questo è un pregio della sua interpretazione. Anche se il film risulta alla fine uno show: lui, occhiali scuri e camminata da pistolero, solo contro tutti per conquistare il maggior numero possibile di risate contropelo.
IO SONO LA FINE DEL MONDO di Gennaro Nunziante (Italia, 2025, durata 96’, Vision Distribution) con Angelo Duro, Giorgio Colangeli, Matilde Piana, Marilù Pipitone, Evelyn Famà Giudizio: 2 ½ su 5 Nelle sale
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