La guerra civile dilania il Sudan da 20 mesi, la crisi umanitaria si fa sempre più grave

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Da ormai oltre 20 mesi il Sudan è dilaniato da una feroce guerra civile che ha già provocato decine di migliaia di vittime e oltre 8 milioni di sfollati, distruggendo il grande paese africano. In questo teatro di guerra dimenticato si confrontano sul campo due generali, un tempo alleati e coprotagonisti del colpo di Stato che aveva detronizzato Omar al-Bashir, rimasto al potere in Sudan per 26 anni.

L’11 aprile del 2019 le forze armate sudanesi, guidate dal generale Abdel-Fattah al-Burhan e dal Tenente-Generale Ahmed Awad Ibn Auf, hanno istituito un governo militare sciogliendo l’esecutivo di al-Bashir dopo mesi di proteste di piazza. Nell’agosto dello stesso anno nasceva il Consiglio sovrano del Sudan, un organismo civile-militare che sceglieva come primo ministro Abdallah Hamdok, un economista che aveva lavorato anche per le Nazioni Unite. Nel settembre del 2021 veniva sventato un nuovo colpo di Stato orchestrato da alcuni fedelissimi dell’ex presidente al-Bashir, ma il 25 ottobre il premier Hamdok veniva arrestato e destituito da un gruppo di militari. Dopo due mesi di trattative con l’esercito, veniva reinsediato ma il 2 gennaio del 2022 il primo ministro rassegnava le dimissioni dopo le proteste represse nel sangue dalle forze armate.

Dall’inizio del 2022 il Sudan vedeva un regime totalmente militarizzato, con il potere diviso tra il generale Abdel-Fattah al-Burhan e il suo vice Mohamed Hamdan Dagalo, capo delle forze paramilitari create dall’ex dittatore al-Bashir. I miliziani, chiamati Forze di supporto rapido, erano nati diversi anni prima per reprimere le proteste del popolo sudanese e soprattutto per colpire le tribù della regione del Darfur dove avevano compiuto un autentico genocidio. Al tempo venivano chiamati Janjaweed, cioè Diavoli a cavallo, ed erano tristemente noti per gli attacchi ai villaggi, gli stupri e gli omicidi. Arruolati fra le tribù arabe del Darfur, volevano eliminare gli africani dalla loro regione con un’accurata pulizia etnica.

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La complessa coabitazione tra i due Generali è deflagrata dopo poco più di un anno, quando al-Burhan ha provato a far confluire le Forze di supporto rapido nell’esercito nazionale sudanese. Dagalo si era immediatamente opposto a questa mossa, accusando al-Burhan di voler concentrare nelle proprie mani tutto il potere. Il 15 aprile del 2023 i paramilitari hanno attaccato per primi, prendendo il controllo dell’aeroporto internazionale di Khartoum, del palazzo presidenziale e di interi quartieri del centro della Capitale. La battaglia di Khartoum era però soltanto all’inizio, e dalla posizione nella città gemella di Omdurman i governativi avevano conquistato terreno, supportati anche dall’aviazione sudanese rimasta fedele alle truppe nazionali. Gli oltre 5 milioni e mezzo di abitanti dell’area metropolitana si sono così ritrovati in piena battaglia, diventando bersagli dei combattimenti. La popolazione ha cercato di scappare, ma tutte le vie di fuga sono state chiuse dai governativi che hanno cercato una manovra a tenaglia per strangolare i paramilitari.

Intanto le Forze di supporto rapido si sono mosse dalle loro basi in Darfur, regione originaria di molti di loro, occupando quasi tutta la provincia comprese le città principali. Le province di Equatoria, Nilo Azzurro e Kordofan hanno visto le tribù locali schierarsi con uno dei due contendenti e portare la guerra ovunque. Gli scontri hanno travolto la fragile economia del paese, con la popolazione locale che ha cercato rifugio negli Stati confinanti. Ciad, Egitto, Eritrea, Etiopia e Sud Sudan hanno visto ondate di sfollati creare giganteschi campi profughi lungo i propri confini.

Dall’aprile 2023 sono stati tanti i tentativi di cessate il fuoco voluti dai due grandi mediatori che sono stati gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. I meeting di Gedda hanno caratterizzato i primi 6 mesi di guerra, ma senza mai produrre risultati concreti. Il ruolo delle potenze internazionali è stato determinante in Sudan, con l’Egitto autentico mentore di al-Burhan che quasi ogni settimana volava al Cairo per prendere ordini dall’omologo al-Sisi. Le Forze di supporto rapido (create ai tempi di al-Bashir dal Wagner Group) oltre ai mercenari russi alle loro spalle vantano anche l’appoggio degli Emirati Arabi Uniti, che non hanno mai fatto mancare finanziamenti agli uomini guidati da Dagalo.

La Russia ha invece sempre giocato su entrambi i fronti appoggiando ufficialmente i governativi di al-Burhan, mentre il suo braccio ufficioso del Wagner Group addestrava e armava i paramilitari. In questo articolato mosaico anche l’Ucraina si è insidiata, mettendo a disposizione delle truppe ribelli droni e armamenti con il chiaro obiettivo di destabilizzare il potere di Mosca in Africa. Sia le truppe regolari che i ribelli sono stati accusati da diverse Ong di crimini di guerra, e Human Rights Watch ha addirittura presentato una denuncia contro le Forze di supporto rapido per stupri sistematici nel Kordofan meridionale, soprattutto contro donne della tribù Nuba, alleata dei governativi.

In questa regione vive anche una consistente comunità cristiana, che è stata fortemente perseguitata dai miliziani di Dagalo e che ha dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Il responsabile umanitario delle Nazioni Unite, Tom Fletcher, ha lanciato l’allarme a fine novembre in merito a “un’epidemia di violenza sessuale” contro le donne in Sudan, affermando che il mondo “deve fare di meglio“. A ottobre la Missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite per il Sudan ha affermato che entrambe le parti hanno commesso abusi, tra cui torture e violenza sessuale. Ma ha accusato i paramilitari, in particolare, di “violenza sessuale su larga scala”.

Per il dimenticato conflitto sudanese non appare prossimo nemmeno un cessate il fuoco, mentre il governo provvisorio di al-Burhan (che ha spostato la Capitale a Port Sudan) ha appena firmato un accordo con la Russia per la gestione di due porti sul Mar Rosso in cambio di una nuova fornitura di armi per continuare questa guerra senza fine.

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Matteo Giusti, giornalista professionista, africanista e scrittore, collabora con Limes, Domino, Panorama, Il Manifesto, Il Corriere del Ticino e la Rai. Ha maturato una grande conoscenza del continente africano che ha visitato ed analizzato molte volte, anche grazie a contatti con la popolazione locale. Ha pubblicato nel 2021 il libro L’Omicidio Attanasio, morte di una ambasciatore e nel 2022 La Loro Africa, le nuove potenze contro la vecchia Europa entrambi editi da Castelvecchi

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