A colloquio con padre Alessandro Brai sull’impegno dei saveriani al fianco dei poveri e dei migranti birmani: “C’è molto lavoro nei campi e pochi thailandesi per farlo, quindi i bambini birmani vengono spinti a lavorare dalle
loro famiglie. Cerchiamo di parlare con i genitori per capire come possiamo aiutarli a vivere senza che i loro figli vadano a lavorare”
Jean-Benoît Harel – Città del Vaticano
Ancora oggi “troviamo difficile guardare negli occhi un bambino emarginato, sfruttato e abusato”. Lo ha ricordato Papa Francesco, durante la tradizionale catechesi del mercoledì, tornando a esprimere la sua indignazione per lo sfruttamento dei bambini, in particolare attraverso il lavoro. Secondo le Nazioni Unite, 160 milioni di bambini, ovvero circa uno su dieci in tutto il mondo, sono vittime di questo drammatico fenomeno.
Povertà e mancanza d’istruzione
Spesso è proprio a causa della povertà che i bambini non hanno altra scelta che lavorare per provvedere a sé stessi e alle loro famiglie. Nelle baraccopoli di Bangkok, per esempio, “ce ne sono molti che stanno fuori, che non vanno a scuola e che fanno lavori saltuari, come vendere cose o aiutare a trasportare attrezzi o cibo”, racconta ai media vaticani padre Alessandro Brai. Arrivato in Thailandia nel 2012 con i suoi colleghi, si è inizialmente stabilito a KhlongToey, una delle baraccopoli più grandi della capitale thailandese. Nel 2023 il sacerdote di origine sarda si è unito a una missione al “Km 48”, lungo il confine tra Thailandia e Myanmar.
Il lavoro nei campi
Dall’inizio della guerra civile nel febbraio 2021, circa 2 milioni di birmani sono fuggiti dal Myanmar per cercare rifugio in Thailandia. “Non avendo documenti, le famiglie sono molto povere, hanno bisogno di soldi”, spiega padre Brai. Una povertà che spinge i bambini a lavorare fin da piccoli. Nelle famiglie generalmente numerose, la madre si occupa dei figli a casa e lo stipendio del padre è insufficiente. “C’è molto lavoro nei campi e non ci sono abbastanza thailandesi per farlo, quindi i bambini birmani vengono spinti a lavorare dalle loro famiglie”, racconta il missionario.
L’impegno dei missionari saveriani con le famiglie di migranti
Di fronte alla piaga del lavoro minorile, don Alessandro Brai incoraggia le famiglie a mandare i propri figli a scuola. Ma questi bambini, rifugiati in Thailandia, non possono beneficiare dell’istruzione pubblica, perché non hanno i documenti. Tuttavia, alcuni centri di apprendimento gestiti da organizzazioni non governative stanno cercando di fornire accesso all’istruzione basilare per i giovani. Tuttavia i posti sono molto limitati. Nel 2022 i missionari saveriani hanno aperto anche la loro scuola. È quindi necessario convincere i genitori a lasciare i figli a scuola. “Quello che cerchiamo di fare con le famiglie è parlare con i genitori, per cercare di capire come possiamo aiutarli a vivere senza che i loro figli vadano a lavorare”, continua padre Brai. Ecco perché alcuni genitori vengono assunti dalla parrocchia o da altri cattolici per guadagnare uno stipendio dignitoso e sostenere tutti i loro figli. I missionari devono anche convincere gli insegnanti a rimanere dietro le loro scrivanie. “A volte gli insegnanti vanno a lavorare nei campi invece di insegnare, per portare più soldi alle loro famiglie”, racconta il sacerdote, che si impegna a pagare uno stipendio dignitoso a tutti gli insegnanti del suo centro.
Aiuti per gli studi e per il cibo
Diverse associazioni lavorano con questi rifugiati birmani che vivono in povertà, come Enfants du Mékong, inviando volontari e donazioni. Padre Brai riceve e distribuisce questi aiuti “per gli studi dei ragazzi, il che significa acquistare divise, materiale scolastico ma anche cibo, perché spesso ciò di cui hanno bisogno è proprio il cibo”. Il missionario, come i suoi colleghi, si dedica al compito di offrire la migliore istruzione possibile ai bambini, pur essendo consapevole dell’immensità del compito in questa regione montuosa della Thailandia nord-occidentale: “Si tratta di migliaia e migliaia di persone che hanno bisogno aiuto perché molte famiglie sono rifugiate lì da molto tempo e ogni giorno ne arrivano altre”.
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