l’intelligenza artificiale nell’archeologia. Una prospettiva critica su sfide e potenzialità

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Un importante contributo teorico di Gabriele Gattiglia, docente associato di Metodologie della ricerca archeologica dell’Università di Pisa, appare nell’ultimo numero del Journal of Cultural Heritage (2025) con il titolo Managing Artificial Intelligence in Archaeology. An Overview. Il lavoro illumina con rigore scientifico l’orizzonte in cui archeologia ed intelligenza artificiale (IA) stanno interagendo sempre più strettamente.

Il suo contributo non si limita a descrivere le applicazioni dell’IA nel settore, ma ne analizza anche le delicate implicazioni epistemologiche, etiche e sociali, restituendo un quadro di ampio respiro che coniuga le più recenti evoluzioni tecnologiche con l’attenzione per la complessità interpretativa tipica della ricerca archeologica.

Uno degli aspetti più affascinanti dello studio è l’esposizione delle innovazioni che l’IA sta apportando a un campo che è contrassegnato da dati frammentari e interpretazioni stratificate. Tecniche di machine learning, reti neurali profonde e modelli generativi (come le GAN, cioé Generative Adversarial Networks) mostrano la loro efficacia nell’automatizzare processi prima estremamente dispendiosi in termini di tempo e risorse umane: in ambiti che vanno dal restauro virtuale di ceramiche all’identificazione di incisioni rupestri, fino alla trascrizione e traduzione di tavolette cuneiformi.

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La sua osservazione secondo cui l’archeologia sta compiendo il passo decisivo da una “fase post-digitale” ad una “fase algoritmica” è particolarmente suggestiva. Se il digitale è divenuto pratica consolidata, l’IA introduce un salto qualitativo che ridefinisce l’intero spettro di attività archeologiche, aprendo la strada a nuove responsabilità metodologiche. La capacità di simulare in modo sempre più fedele processi cognitivi complessi può però rivelarsi un’arma a doppio taglio, se non fosse accompagnata da un’adeguata consapevolezza critica.

Il panorama descritto evidenzia vantaggi notevoli in termini di efficienza e scalabilità dell’analisi di dati. Algoritmi di deep learning sono in grado di passare al setaccio ingenti quantità di immagini satellitari o informazioni LIDAR, fornendo risultati che in precedenza avrebbero richiesto anni di ricerca. Questo si traduce in una capacità di rilevare siti, mappare scenari di rischio di deterioramento e programmare interventi conservativi con livelli di precisione prima inimmaginabili.

Non meno rilevante è l’apporto cognitivo che l’IA può offrire nello studio dei contesti archeologici. Tecnologie di computer vision, come le reti neurali convoluzionali, hanno già mostrato di saper identificare pattern significativi in reperti ceramici o ossei, mentre i modelli transformer potenziano l’accuratezza nella datazione di iscrizioni e documenti antichi. L’adozione di modelli “human-in-the-loop” consolida un approccio ibrido, in cui l’archeologo e l’IA collaborano, riducendo i margini di errore e affinando progressivamente le prestazioni algoritmiche.

Il passaggio ad un’archeologia ad alto tasso di automazione non è però esente da rischi. Gattiglia richiama l’attenzione su quello che definisce “enchantment determinism”, ossia la tendenza a riporre un’eccessiva fiducia negli output algoritmici. Tale inclinazione può tradursi in interpretazioni dogmatiche, che cristallizzano ipotesi fondate su dataset storicamente parziali o addirittura viziati da pregiudizi culturali e coloniali. Una volta diffuse, queste narrazioni distorte si rivelano particolarmente insidiose da correggere.

Un ulteriore nodo irrisolto è la trasparenza delle tecnologie impiegate. Le reti neurali profonde operano spesso come “scatole nere”, rendendo ostico comprendere in che modo vengano generate le conclusioni. In un settore come l’archeologia, la tracciabilità del processo interpretativo è di importanza cruciale per validare i risultati e per garantire un’adeguata discussione scientifica. Infine, la produzione di dataset di qualità elevata richiede uno sforzo metodologico e risorse che non tutte le istituzioni hanno a disposizione, rischiando di ampliare il divario tra chi può adottare l’IA e chi ne rimane escluso.

La riflessione etica pervade l’intero articolo, richiamando una responsabilità che va ben oltre il semplice uso “tecnico” dell’IA. L’automazione di decisioni interpretative in archeologia può generare conseguenze profonde sulla narrazione storica e sull’identità culturale delle comunità locali. In questa prospettiva, la domanda non è tanto “cosa l’IA può fare per noi?”, ma “come vogliamo che l’IA contribuisca alla nostra comprensione del passato?”

La questione della sostenibilità è altrettanto cruciale: l’addestramento di modelli di IA su larga scala comporta elevati consumi energetici e rischia di esacerbare le disuguaglianze a livello internazionale. Istituti e ricercatori con risorse limitate – spesso collocati in aree del mondo ricche di patrimonio archeologico ma carenti di infrastrutture tecnologiche – potrebbero trovarsi ulteriormente emarginati in un contesto dominato da grandi centri di ricerca e organizzazioni dotate di fondi cospicui.

In conclusione, l’analisi di Gattiglia pone in evidenza la necessità di superare facili entusiasmi per avviare una fase di “maturità algoritmica” nell’archeologia. Questo passaggio richiede non solo modelli più trasparenti e aperti alla validazione incrociata, ma anche un potenziamento della collaborazione interdisciplinare. Informatici, archeologi, filosofi della scienza ed eticisti dovrebbero cooperare per sviluppare protocolli di ricerca condivisi, in cui la capacità computazionale dialoghi con la sensibilità umanistica. Solo così l’IA potrà affiancare in modo sostenibile e responsabile il lavoro dell’archeologo, contribuendo ad una conoscenza che tenga insieme precisione analitica, profondità storica e consapevolezza del contesto culturale.

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Gattiglia, G. Managing Artificial Intelligence in Archaeology. An Overview. Journal of Cultural Heritage, 71 (2025), 225–233.

DOI: 10.1016/j.culher.2024.11.020.



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