L’ordine apparente del Pakistan – Panorama

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Può una potenza nucleare rischiare di finire in mano al terrorismo jihadista? È ciò che si chiedono gli analisti internazionali osservando il Pakistan del premier Shehbaz Sharif, sempre più avvitato in una crisi economica e di sicurezza dai risvolti imprevedibili. Specie dopo l’ennesima incursione dei Talebani in alcuni villaggi contesi lungo la cosiddetta linea Durand, che separa teoricamente i due Paesi islamici e dove gli scontri di Natale hanno fatto un centinaio di vittime, prima che Islamabad riportasse l’ordine. Un ordine destinato a non durare, essendo la zona una delle più impervie e ribelli al mondo. Quinto al mondo per popolazione (240 milioni di abitanti) e con un esercito decisivo nell’indirizzare la politica e l’economia, si può dire che la stabilità interna del Pakistan dipenda interamente dallo Stato centrale e dalla sua forza coercitiva. Che, però, fatica non poco a tenere insieme quel mosaico di etnie nato dalla sanguinosa partizione con l’India nel 1947 e ancora oggi concepito come santuario dei musulmani del Subcontinente indiano. Il suo stesso nome prima dell’indipendenza è indicativo: contrae i nomi delle regioni patrie dei musulmani del nord dell’India, e cioè P come Punjab, A come Afghania, K come Kashmir, I come Indus, S come Sindh e Tan come Belucistan.Queste molteplici anime sono unite finora da un rigido controllo militare e da un sistema economico sviluppato che però si basa quasi esclusivamente sui sussidi verso i beni primari e su una spesa pubblica che, invece di indirizzarsi su educazione e infrastrutture, è fagocitata dalle spese militari. Inoltre, la riscossione delle tasse è difficile e non intacca rendite e privilegi della casta politico-economica pakistana al vertice della quale siedono ancora i generali, che distribuiscono poltrone e affidano commesse secondo uno schema para-mafioso.Basta guardare ai suoi premier più significativi, per capire il Paese: come Zulfiqar Ali Bhutto, estromesso da un golpe militare (e poi giustiziato); Nawaz Sharif, rimosso nel 1999 dal generale Musharraf; Imran Khan, salito al potere grazie ai generali e poi da loro cacciato e il suo partito sciolto perché un tentativo di affrancarsi dalla loro dipendenza (oggi sconta in carcere dieci anni per corruzione). Proprio la vicenda Khan è stato un detonatore per le opposizioni islamiste interne, che vogliono spezzare questa commistione tra potere politico, economico e militare: all’indomani della condanna, ci sono stati assalti a caserme e stazioni di polizia.

Le proteste sono presto sfuggite di mano ai militari, e così oggi nel Paese c’è un’impennata di attacchi, anche terroristici, alimentati sia da insurrezionalisti locali sia da gruppi estremisti internazionali: insieme, queste opposizioni armate rappresentano una seria minaccia alla stabilità interna. Nel solo 2024 il Pakistan ha registrato un significativo incremento degli attacchi violenti, passati a 856 casi rispetto ai 645 riportati nel 2023.La maggior parte si è concentrata nel Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan, dove operano soprattutto le milizie di Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp), un’alleanza di ex membri di al-Qaida, Isis e Talebani formatasi nel 2007 per raggruppare le molte anime dell’opposzione all’esercito pakistano. Sono loro oggi la più significativa minaccia per Islamabad, perché sanno come approfittare del vuoto di potere dovuto alla governance fragile della zona e alle forze di sicurezza insufficienti. Il Ttp ha la sua base operativa in Afghanistan e, dal momento in cui i Talebani hanno assunto il controllo del Paese nell’agosto 2021, ha acquisito una sempre maggiore capacità di effettuare attacchi transfrontalieri grazie anche alle armi abbandonate dagli Stati Uniti dopo il ritiro. A poco sono valsi i periodici tentativi di Islamabad di accordarsi con il Ttp per garantirsi un cessate il fuoco: le rivendicazioni di questi ultimi prevedono il ritiro completo delle forze militari dalle ex Aree tribali amministrate federalmente (Fata), una regione tradizionalmente considerata «senza governo» e appannaggio esclusivo di al-Qaida, che lo Stato pakistano ha tentato di integrare in modo più strutturato negli ultimi anni, ma senza successo. Il governo centrale ha anche un altro problema chiamato Belucistan: regione caratterizzata da un complesso intreccio di gruppi ed etnie ribelli con tendenze separatiste, continua a essere epicentro di violenze dirette contro i soldati che pattugliano la zona.

A condurle è l’Esercito di liberazione del Belucistan (Bla), movimento etno-nazionalista che si oppone alla massiccia presenza economica cinese nella regione, rappresentata dal Corridoio economico Cina-Pakistan. Tra i suoi attacchi letali: nel novembre scorso l’attentato alla stazione ferroviaria di Quetta, 26 vittime; prima, ad agosto, sei attacchi in 24 ore, morti 35 civili e 14 membri delle forze armate. L’attuale carenza di risorse e l’instabilità politica hanno dunque indebolito le forze di sicurezza e i servizi di intelligence nel contrastare e prevenire tali attacchi. Anche perché i militari sono al contempo impegnati su altri fronti, non ultimo quello che da ottant’anni si svolge a meno di 200 chilometri dalla capitale: il conflitto del Kahsmir, regione contesa con l’India all’estremità nord-occidentale del subcontinente. Teatro di una delle crisi più prolungate dell’Asia meridionale, Islamabad non intende cedere a New Delhi quel lembo di terra (dove abitano appena 4,5 milioni di persone) ancora sotto controllo pakistano. In questo rompicapo di tensioni, c’è chi teme per la sopravvivenza stessa dello Stato per come lo conosciamo oggi e preconizza una futura balcanizzazione del Paese, se le forze armate dovessero collassare sul modello siriano. E questa è solo l’ipotesi migliore, considerato che un crollo dello Stato centrale comprometterebbe un arsenale nucleare stimato in circa 165 testate atomiche e che, secondo l’Arms Control Association (Aca), rappresenta il programma atomico in più rapida crescita a livello globale. Lo scenario politico del Pakistan contemporaneo appare dunque segnato da violenze settarie che si sovrappongono alle continue manifestazioni di massa organizzate dai sostenitori dell’ex premier Khan, la cui rimozione ha compromesso forse definitivamente la stabilità di un sistema politico sempre più fragile e corrotto.

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