Da 27 anni il mondiale F.1 è monopolio degli europei!

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Le varie ere della Formula 1

Negli Anni ’50 Fangio e Brabham avevano assicurato una ripartizione di iridi addirittura tricontinentale, con Americhe e Oceania al top e con la vecchia Europa rappresentata dall’Italia, con Farina e Ascari, e dalla Gran Bretagna con Hawthorn. Negli Anni ’60, stesso lodevole discorso. Primo titolo Nordamericano con lo storico trionfo di Phil Hill, segue l’Europa con Surtees, Clark, Graham Hill e Stewart, mentre l’Oceania risponde grazie all’australiano Brabham e al neozelandese Hulme.

Belli, stupendi gli Anni ’70, con l’Europa che picchia col compianto Rindt, Stewart, Lauda e Hunt. Ma attenzione, perché la cosa fantastica è che il mondiale lo vincono anche il brasiliano Fittipaldi, lo statunitense Andretti e il sudafricano Scheckter. Tre continenti su cinque al top in una decade, con l’australiano Jones in gloria pochi mesi dopo, a iniziare gli Anni ’80, quelli dei brasiliani Piquet e Senna, e degli europei Rosberg, Lauda e Prost.

In altre e più sentite parole, dal 1972 all’80 vincono il mondiale Piloti dei campioni di ben quattro continenti su cinque  e questo è favoloso, per una Formula Uno sempre più mondialista e dalle scuole ripartite e ben diversificate. Anche se quelle agonisticamente e filosoficamente effettive restano quattro: la britannica, la neolatina, la statunitense e quella asiatica.

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Ma andiamo avanti. Gli Anni ’90 si dividono tra Americhe ed Europa, con Senna e Villeneuve Jr a fare da contrappunto a Mansell, Prost, Schumacher, Damon Hill e Hakkinen. Ma poi, da lì e fino a oggi, c’è la totale fine della belligeranza pluricontinentale. Eh, sì, perché è dal millennio scorso, anno 1997, che un extraeuropeo non vince più un mondiale Piloti, ovvero dall’exploit di Jacques Villeneuve su Williams. Peggio. C’è un altro fatto che sconcerta, ovvero che, dal 1998 a oggi, solo tre volte un extraeuropeo è stato in davvero lizza per vincere, ovvero Montoya nel 2003, Massa nel (controverso) 2008 e Webber nel 2010. Poi riga, nulla, niente, solo Europa al top. Con Schumi, Alonso, Raikkonen, Hamilton, Button, Vettel, Rosberg e Verstappen. Ossia Germania, Spagna, Finlandia, Gran Bretagna e Olanda. E qui sta la grande contraddizione: se la F.1 è sempre più planetaria e globale, i Paesi d’origine dei campioni nell’ultimo quarto di secolo stanno in un angusto e minuscolo cerchietto di penna, sulla carta geografica. Incredibile ma vero, no?

I motivi del dominio europeo

E il motivo non è difficile da spiegare. Mentre geopoliticamente il Circus s’espandeva e s’espande ovunque, dal punto di vista delle reali opportunità di formazione agonistica il fulcro delle attività è divenuto sempre più l’Europa: come prima ma molto più di prima, in realtà.

Dopo Senna, il Brasile per decenni s’è inaridito, la crisi economica per tanto tempo ha tarpato le ali all’Argentina, mentre gli Stati Uniti si sono sempre più incistati e differenziati dalla F.1. Se prima era difficile vedere un grande a Stelle & Strisce tentare la fortuna nel Circus, ora le cose sono diventate quasi impossibili, anche perché di veri big, davvero spendibili anche oltre gli ovali corti e i superspeedway, la IndyCar ne ha espressi pochini pochini. Quanto alle barriere tra diversi mondi, be’, inutile ricordare che le difficoltà avute da Herta ad acquisire la Superlicenza e dal team Usa facente capo agli Andretti a farsi ammettere dal 2026 sono realtà che parlano chiaro. Per gli europei la IndyCar è solo un ripego, per i piloti Usa la F.1 è un lusso evitabile e in fondo neanche troppo sognato.

La verità su cui ragionare è che accanto alla mondializzazione sempre più estesa e spinta del calendario F.1, vi è una concentrazione d’intensità eguale ma di direzione contraria a far sì che sia stata sempre più l’Europa il baricentro geopolitico dela F.1 che conta, ovvero di quella che alleva, seleziona, corre e vince. Tutto questo almeno fino a oggi, perché adesso di segnali interessanti in chiave 2025 e seguenti ce ne sono eccome. Il Sud America propone Bortoleto e, in subordine, da reserve driver ma promuovibilissimo, Colapinto, mentre Mario Andretti mi dice sempre più spesso che spinge per Herta alla Cadillac, nel team Usa che contribuirà a rimondializzare un po’ il parco partenti.

Non solo: l’arrivo di Antonelli, in proiezione, potrebbe rendere meno fantascientifico il guaio d’avere l’italia a secco di ambizioni iridate effettive dal 1953, ovvero dal pleistocene.

Presente e futuro della Formula 1

Ecco, quello che voglio dire è che fino al 2024 la F.1 ha avuto grossi mali non capiti né diagnosticati e ora potrebbero esserci delle belle cure all’orizzonte. Perché, vedete, se il Circus va a correre in ognidove, Ruanda, Topolinia, Paperopoli e Narnia comprese, in fin dei conti la cosa interessa solo le casse di Liberty. Ma se a poter vincere tornano a essere dei campioni di vari continenti, allora sì che la piattaforma si riespande d’interesse e attrattiva tra gente d’ogni età. La F.1 è tornata orange grazie a Verstappen, che ha magnetizzato l’Olanda intera, così come Sinner ha fatto rituffare l’Italia nel tennis. Speriamo che si (ri)creino le condizioni affinché la lotta per il successo in F.1 torni a essere pluricontinentale, per avere un Circus davvero globale, ben al di là del mercato dei calendari.

Una volta l’ispirato Italo Cucci in Tv disse che il calcio è grande perché coinvolge tutti. E che il mondiale è davvero mondiale anche e soprattutto perché è un campionato europeo che vede in lizza per la vittoria anche Brasile e Argentina.

Per questo, ancor più che esultare per l’arrivo di Hamilton in Ferrari, che mi sembra un bel motivo di richiamo ma del tutto individuale, comunque breve (vista l’età di Hammer) e transitorio, a mio avviso i segnali più belli, eccitanti e rivoluzionari della F.1 riguardano in proiezione Bortoleto, Colapinto, Antonelli, la metà magrebina di Hadjar e forse Herta, perché riconvocano Americhe, un po’ di Africa e l’Italia. Nella speranza che la F.1 smetta d’essere quello Sport in cui sono coinvolti otto miliardi di potenziali utenti e poi a vincere sono solo piloti di cinque Nazioni, manco fosse l’esclusivissimo rugby.

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