Capire come cambierà il mondo del lavoro a seguito della doppia transizione digitale e verde è impresa assai difficile. È indubbio che siamo di fronte a un processo di trasformazione dell’assetto produttivo che porterà alla distruzione di posti di lavoro e alla creazione di nuovi, ma potremmo anche assistere ad una “svalorizzazione” del lavoro a causa dell’automazione di molte mansioni svolte adesso dall’essere umano, questo potrebbe portare alla proliferazione di posti di lavoro a basso reddito. Il rischio è che a pagare siano i più svantaggiati: le donne più degli uomini, i paesi in via di sviluppo.
La comprensione del fenomeno è precondizione per provare a governarlo. Un proposito molto complicato da perseguire in quanto si tratta di trasformazioni che nascono dal basso e hanno carattere globale. Di fronte ad esse si ha come la sensazione che le istituzioni, la politica, il coordinamento tra gli Stati possano fare davvero poco. Qualche indicazione può essere comunque tratta dalle analisi fin qui proposte.
L’impatto sul mondo del lavoro delle due trasformazioni ha due tratti in comune. In primo luogo, il rischio è che esse pregiudichino maggiormente le lavoratrici rispetto ai lavoratori, compromettendo la tendenza alla riduzione del gender gap sia in termini di inclusione nel mondo del lavoro che in termini di remunerazione. In secondo luogo, ambedue le transizioni rischiano di impattare maggiormente i paesi emergenti e in via di sviluppo rispetto ai paesi avanzati.
Partiamo dalle implicazioni della transizione digitale per il mondo del lavoro. In uno studio del Fondo Monetario Internazionale si mostra che il 40% delle forza lavoro a livello globale è esposto alla rivoluzione dell’intelligenza artificiale. La quota è maggiore nelle economie avanzate (60%) rispetto a quella dei paesi emergenti (40%) e a basso reddito (26%). A prima vista, quindi, i paesi avanzati soffriranno di più della rivoluzione della intelligenza artificiale. Ciò non è del tutto vero per due motivi. In primo luogo, il 27% della forza lavoro nei paesi avanzati è sì esposto alla rivoluzione digitale ma è anche fortemente complementare con la stessa, la stessa quota è pari al 16 e all’8% nei paesi emergenti e a basso reddito. Quindi, la quota di posti di lavoro seriamente a rischio è pari, rispettivamente, al 33%, 24% e 18% per le tre classi di paesi. Il dato è sempre a sfavore dei paesi avanzati ma non in misura molto significativa: essi beneficiano inoltre della quota elevata di posti di lavoro complementari con l’intelligenza artificiale. La capacità dei paesi avanzati (e anche emergenti) di innovare in questo ambito, creando nuove opportunità di lavoro, rappresenta il loro punto di forza; i paesi a basso reddito rischiano invece di rimanere esclusi da questo processo in quanto mancano delle infrastrutture e degli investimenti necessari per sfruttare le opportunità. Quindi, i paesi avanzati sono sì più a rischio ma sono anche più attrezzati per cogliere le opportunità della trasformazione digitale. Per raggiungere l’obiettivo saranno cruciali gli investimenti in innovazione e l’integrazione dell’intelligenza artificiale nella struttura produttiva tramite la regolamentazione. Nei paesi a basso reddito il tema è invece quello di colmare il gap infrastrutturale. La rivoluzione digitale discrimina anche tra uomini e donne, con le seconde che sono più esposte agli effetti della rivoluzione dell’intelligenza artificiale. Anche il livello di educazione svolge un ruolo rilevante: i lavoratori laureati sono più esposti alla trasformazione digitale ma sono anche più capaci di svolgere un ruolo complementare con la stessa e quindi di cogliere le opportunità.
Per valutare l’impatto della transizione green possiamo partire da un recente studio sempre del Fondo Monetario Internazionale. Secondo questa analisi, la percentuale dei lavori inquinanti nei paesi avanzati è pari al 9,2% mentre la quota di lavori green è pari al 13,8%; nei paesi emergenti e a basso reddito i lavori inquinanti sono pari al 12,5% mentre quelli green contano per il 10,8%. Quindi, anche in questo caso, i paesi emergenti e a basso reddito rischiano di essere maggiormente impattati. Anche l’impatto della trasformazione verde è differenziato a livello di genere: nei paesi avanzati, i lavori verdi degli uomini sono pari al 20,3% contro il 6% delle donne, nei paesi emergenti il dato è pari al 16 e al 4,6%, rispettivamente. Non c’è soltanto un tema di quantità di posti di lavoro, che aumenteranno tra quelli verdi e diminuiranno tra quelli inquinanti, c’è anche un tema di remunerazione: i lavori verdi sono più remunerati di quelli inquinanti. Anche qui, cruciale per cogliere la differenza è il capitale umano, in particolare la quota di lavori verdi è strettamente legata alla quota di laureati STEM (science, technology, engineering and mathematics), una quota che è significativamente più bassa tra le donne rispetto a quanto osservato per gli uomini. In Italia, che si colloca in fondo alla classifica in senso assoluto, la quota tra gli uomini è 28%, tra le donne appena il 15%.
Le due transizioni avranno dunque un impatto importante sulla struttura produttiva con effetti tra paesi e all’interno di ciascun paese. Il rischio è che alcuni divari (istruito-non istruito, uomo-donna) vengano ad ampliarsi. Governare il processo è alquanto difficile, quello che è certo è che l’investimento in capitale umano promuovendo lo studio delle materie scientifiche a tutti i livelli scolastici deve essere una priorità. Un tema, che al di là della retorica, trova poco spazio nell’agenda politica italiana.
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