È in libreria a Napoli, Roma, Bologna, Milano e Torino (qui tutti i punti di distribuzione) il numero 13 de Lo stato delle città. A seguire pubblichiamo l’articolo I buoni all’attacco, di Flavia Tumminello.
La linea retta che descrive corso Giulio Cesare, a Torino, si estende a perdita d’occhio inseguendo i binari del tram e lo scorrere incessante delle macchine. Dai palazzi sporgono insegne in arabo, cinese, italiano. Narrano un mondo in cui il ritmo delle faccende quotidiane risente di influssi provenienti da paesi lontani: minimarket, telefonia, agenzia viaggi, macelleria. Il televisore acceso in un bar riversa sulla strada i suoni di una partita di calcio. A poca distanza, sulle serrande chiuse al piano terra di un palazzo, al numero 34, è possibile leggere: “Fuori i buoni dai quartieri”, “Per ogni sgombero un bene comune”. Si sussurra che in passato il palazzo, oggi vuoto, avesse offerto riparo a persone in cerca di un tetto finché una mattina è giunta la polizia a sgomberarli. Risalendo la linea del corso, un altro edificio, adesso protetto da telecamere e da luci sempre accese, un tempo ospitava un’occupazione. L’arrivo delle camionette ha lasciato dietro di sé il deserto e la reclame di appartamenti di lusso in un quartiere riqualificato.
Ben diversa è la storia raccontata dai graffiti di corso Giulio Cesare 34, una storia che parla di innovazione sociale, cittadinanza attiva e filantropia. La fondazione di comunità Porta Palazzo, un ente nato sotto l’egida di Compagnia di San Paolo e attivo nei quartieri di Aurora e Porta Palazzo, ha recentemente acquistato l’edificio per adibirlo a primo Community Land Trust (CLT) in Italia. Il principio alla base del CLT è la separazione tra la proprietà dell’immobile da quella del suolo. Questa separazione permette di ridurre il costo dei singoli appartamenti, i quali sono venduti a un prezzo calmierato a famiglie che altrimenti faticherebbero ad accedere a un mutuo, mentre la proprietà del terreno rimane, anche in caso di rivendita futura, nelle mani del trust. Si tratta di un modello che trae la propria sostenibilità economica dalla premessa che l’estrazione di plusvalore legata alla costante crescita dei valori immobiliari verrà distribuita equamente tra nuovi e vecchi acquirenti, investitori nel progetto e cittadini che fruiscono dei benefici portati dalla rige- nerazione urbana, tra cui l’apertura al pubblico degli spazi comuni dell’edificio.
La fondazione sostiene di avere come obiettivo principale il contrasto alla gentrificazione del quartiere: alla proprietà privata oppone la proprietà “collettiva”, alla speculazione immobiliare una speculazione “dolce”, appetibile per una borghesia progressista in cerca di profitti etici.
I sostenitori e i fondatori del CLT si definiscono “innovatori sociali”, appellativo che fonde una retorica pionieristica e rampante con suggestioni che rievocano le tradizioni politiche di auto-organizzazione dal basso. Nella realtà essi non solo ricevono ingenti finanziamenti da Compagnia di San Paolo, ma godono anche del sostegno di tutta una classe dirigente e politica che vede nel CLT la prefigurazione di un modello di welfare “innovativo” grazie a cui sopperire al definanziamento delle politiche abitative e sociali pubbliche. La fondazione si è ritrovata al centro di un vero e proprio think tank che si è sostanziato in un ciclo di incontri cui hanno preso parte diversi esponenti della giunta comunale, tra cui l’assessore al welfare Rosatelli, del partito Sinistra Ecologista, che ha tratteggiato il welfare abitativo del futuro come una costellazione di partnership pubblico-private che coinvolga il terzo settore e il variegato mondo della “cittadinanza attiva”, nonché gli stessi beneficiari delle politiche.
In questo solco si colloca l’esperienza di Homes4All, progetto di finanza a impatto sociale che coinvolge un’ampia rete di società private con a capofila il comune di Torino. La start up, fondata nel 2019, si propone di ridurre l’emergenza abitativa attraverso l’acquisto o la gestione da privati di immobili che verranno poi dati in locazione temporanea a un canone “sostenibile” a famiglie selezionate dalle graduatorie dell’agenzia comunale per la locazione. Palazzi fatiscenti in quartieri dai valori immobiliari bassi caratterizzati dalla presenza di immigrati e di altri marginali si trasformano così in asset vantaggiosi non solo per gli investitori, ma anche per la pubblica amministrazione. H4A, infatti, promette un risparmio per le casse comunali di circa 450 mila euro rispetto ai costi legati alla messa a disposizione di strutture di emergenza abitativa. La società, nata a Torino, è già approdata a Genova e in Lombardia e punta a estendersi ulteriormente; ha acquisito 69 immobili e ne gestisce 35, per un totale di 5,2 milioni di capitali raccolti da investitori pubblici e privati. Dati difficilmente compatibili con l’idea di una piccola proprietà diffusa contro la grande speculazione immobiliare, ma coerenti con un modello finanziario che individua nel profitto privato l’impulso necessario al sostentamento del welfare. Secondo Matteo Robiglio, architetto e docente del Politecnico, tra i fondatori di H4A, le politiche sociali basate sull’erogazione di finanziamenti diretti a fondo perduto sarebbero economicamente insostenibili. Il settore pubblico dovrebbe convogliare i propri fondi sulle compartecipazioni con attori privati e creare una regolamentazione (o deregolamentazione) che favorisca le esperienze innovative.
H4A nasce dalla fusione di Brainscapital, società di consulenza specializzata “nello sviluppo di start up” e Homers, che si occupa del recupero di immobili vuoti per la realizzazione di cohousing. Nel 2018 Brainscapital ha fatto parte del “raggruppamento tecnico” che ha supportato la città di Torino nel “Progetto speciale campi nomadi”, culminato nel 2020 con lo sgombero del campo rom e delle baraccopoli di via Germagnano, all’estrema periferia. Evidentemente, esistono ancora poveri che non generano né valore economico né valore sociale misurabili, e che continueranno a essere espulsi e allontanati – la storia della loro marginalità rimossa dal discorso pubblico. Tutta questa violenza sarebbe forse meno accettabile se non fosse per l’incessante pantomima dei “buoni”, che sotto la maschera di un capitalismo dal volto umano nascondono la loro stessa natura di classi dirigenti neoliberali; possono assumere le sembianze della filantropia, dei partiti di sinistra, dell’associazionismo, della finanza etica, ma sanno anche mimare pratiche e linguaggi dei movimenti sociali. È il caso della proposta di delibera di iniziativa popolare “Vuoti a rendere” che chiede vengano messe a disposizione della collettività tutte le case sfitte, di proprietà pubblica e privata, nella città di Torino. Con “Vuoti a rendere” siamo tutti invitati ad assumere la prospettiva degli innovatori, immaginandoci come questo patrimonio abitativo possa essere riutilizzato, magari in vista di future speculazioni “etiche”. Allo stesso tempo questa possibilità viene confinata a una partecipazione istituzionalizzata che non considera le esperienze e i bisogni delle persone ai margini, le quali rimangono sullo sfondo come “beneficiari” o come vittime da proteggere fintantoché non rivendicano i propri diritti, per esempio occupando una casa.
L’ordine del discorso a partire dal quale si costruisce il consenso a queste operazioni ha le sue fondamenta in un universo simbolico dove gli opposti convivono senza alcuna contraddizione: qui la gentrificazione viene contrastata dal grande capitale finanziario, l’auto-organizzazione dipende dalle elargizioni di fondazioni bancarie, chi sgombera i poveri si batte anche per il “diritto alla casa” e il profitto privato diventa un mezzo per raggiungere il benessere collettivo. In un clima di crescente sfiducia legato alla repressione delle lotte sociali e dei gruppi marginalizzati diventa allora sempre più necessario chiederci che cosa vogliamo, se l’innovazione o il conflitto, se identificarci con i “buoni” o stare al fianco degli ultimi. (flavia tumminello)
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