Illegittimo utilizzo dei social: effetti disciplinari nel rapporto di lavoro

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Il presente contributo affronta il tema dell’utilizzo illegittimo dei social da parte del dipendente ed i possibili riflessi disciplinari alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza.


1. La rilevanza dei Social nel rapporto di lavoro.

I Social Network sono parte integrante delle relazioni lavorative, potendo influire non solo nella fase preliminare all’assunzione, ma anche sulla risoluzione del rapporto di lavoro per iniziativa del datore.

Anche nella fase “esecutiva” del rapporto di lavoro può rilevare la mancanza di una specifica normativa che regoli l’utilizzo di tali canali di comunicazione, mancanza alla quale si può tentare di ovviare con l’adozione di regolamenti interni finalizzati a contemperare il diritto di espressione del lavoratore con la tutela degli interessi aziendali (tra cui il diritto di controllare lo svolgimento della prestazione lavorativa – e, quindi, l’utilizzo degli strumenti di lavoro – e la tutela dell’immagine).

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In altri termini, si tratta di perseguire un bilanciamento tra il diritto di espressione e di critica del lavoratore e l’obbligo di fedeltà e di riservatezza gravante su quest’ultimo.

Il presente contributo illustrerà alcune fattispecie esaminate dalla giurisprudenza, senza approfondire altre tematiche (ugualmente importanti) inerenti l’utilizzo dei Social nell’ambito del rapporto di lavoro, come, ad esempio, il contenuto di un’eventuale social media policy (ovvero, di un “codice” volto a regolamentare l’utilizzo di tali strumenti da parte del dipendente) e l’analisi dei requisiti per un legittimo esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore, essendo comunque opportuno, a tal riguardo, evidenziare la necessità di prestare attenzione a quanto pubblicato nelle bacheche dei profili Social, ancorché personali, in considerazione della possibile divulgazione del contenuto, avendo la Suprema Corte affermato, da tempo, che la diffusione di un messaggio offensivo attraverso l’uso di una bacheca Facebook assume una valenza diffamatoria per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone (Cass. 27 aprile 2018, n. 10280).

2. Recenti sentenze della Corte di Cassazione.

La giurisprudenza si è frequentemente pronunciata in fattispecie nelle quali il lavoratore aveva impugnato provvedimenti disciplinari aventi ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro determinata da un utilizzo illegittimo dei Social, applicando costantemente, nel tempo, i principi inizialmente enunciati (ad esempio, in tema di: configurabilità del reato di diffamazione, esercizio del diritto di critica, diffusività della pubblicazione).

Nel richiamare i più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, si ricorda che la Corte di Cassazione (rigettando il ricorso) ha esaminato una fattispecie in cui la Corte di merito aveva confermato il licenziamento di un lavoratore, che aveva postato, sulla pagina Facebook di un collega, una serie di commenti ingiuriosi e minacciosi nei confronti della dirigenza aziendale (Cass. 24 ottobre 2024 n. 27601).

Quanto ai fatti di causa, il lavoratore aveva tentato di sottrarsi a possibili conseguenze di carattere disciplinare cancellando tali commenti – di cui, tuttavia, erano stati raccolti gli screenshots – al fine di poter configurare una sottrazione del profilo da parte di terzi (procedimento archiviato) ed adducendo, successivamente, una specifica ipotesi di reato (furto del profilo), ritenuto comunque poco plausibile stante la cancellazione dei commenti pubblicati (che non poteva, per ragioni tecniche, essere stata attuata dal collega) e del link di amicizia con quest’ultimo (sulla cui pagina, come detto, tali commenti erano stati pubblicati).

Ugualmente confermato, in sede di legittimità, il licenziamento di un lavoratore che, a seguito di reintegrazione da un precedente licenziamento, aveva pubblicato sulla pagina personale di Facebook video e foto ritenuti eccedenti un legittimo esercizio del diritto di critica (Cass. 17 maggio 2024, n. 13764).

Sempre recentemente, la Suprema Corte ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un rappresentante sindacale che aveva pubblicato su Facebook commenti contenenti espressioni sgradevoli e volgari – quindi prive di una finalità divulgativa – finalizzate, di fatto, a ledere il decoro e la reputazione del datore (Cass. 8 novembre 2023 n. 35922).

La Suprema Corte ha evidenziato che un comportamento di tal genere – gravemente lesivo dell’immagine e del prestigio dell’impresa nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili – travalica ampiamente i limiti della correttezza formale del diritto di critica e sfocia nella diffamazione aggravata, considerata la generale visibilità e “diffusività” dei messaggi postati sui Social (Cass. n. 35922/2023, cit.).

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3. Alcune considerazioni ed altre pronunce.

Riguardo l’illegittimità della condotta posta in essere da un lavoratore, si rileva, in particolare, che non occorre che la riferibilità ad un determinato soggetto di un post offensivo debba necessariamente dedursi dalla spendita del nome, essendo sufficiente che ne sia, comunque, consentita la facile individuazione (già da tempo è stato affermato, infatti, che la spendita del nome del legale rappresentante dell’azienda, ove facilmente identificabile, non sia necessaria al fine di accertare l’illegittimità del comportamento posto in essere dal lavoratore: Cass. n. 10280/2018, cit.).

Valutando l’impatto dei Social sulla prestazione lavorativa, si osserva, ad esempio, che Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato all’autista di un autobus pubblico di linea, che aveva utilizzato il display (posto all’interno del mezzo) per manifestare il proprio pensiero in maniera scurrile, provocando reazioni sdegnate sui Social, ove la foto del display era stata pubblicata (Cass. 13 marzo 2023, n. 7293).

Anche se la fattispecie sopra illustrata non riguarda direttamente l’utilizzo illegittimo dei Social da parte del lavoratore (inteso come pubblicazione di un messaggio offensivo), la pronuncia conferma quanto tali strumenti possano influire sulla risoluzione del rapporto di lavoro, considerato che – nel caso esaminato – al fine di motivare la gravità della condotta attuata dal dipendente, la Suprema Corte ha affermato, tra l’altro, che egli si era reso “con azione disonorevole, indegno della pubblica stima tanto è che sul medesimo social ove era stata postata la foto, un interlocutore gli aveva detto che meritava di essere licenziato” (quanto al fatto che la gravità di una condotta del lavoratore possa essere amplificata attraverso i Social vedi anche infra sub paragrafo 4).

La rilevanza disciplinare di comportamenti attuati mediante l’utilizzo dei Social è stata ripetutamente evidenziata dalla giurisprudenza.

Ad esempio, è stata confermata, in sede di legittimità, la sospensione dal servizio e dalla retribuzione di un dirigente amministrativo che aveva molestato una giovane stagista (la cui posizione lavorativa è stata assimilata a quella di una dipendente), prima chiedendole l’amicizia su Facebook, poi monitorandone le foto su tale social e, infine, invitandola a presentarsi truccata in ufficio, chiedendole informazioni sui rapporti col fidanzato e facendola oggetto di varie allusioni (Cass. 13 giugno 2022, n. 18992).

La Suprema Corte ha anche ritenuto – richiamando principi condivisi da altre pronunce di legittimità e di merito – che costituisce grave insubordinazione, da sanzionare con il licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore che, mediante tre mail ed un messaggio sul proprio profilo Facebook, aveva diffuso comunicazioni dai contenuti gravemente offensivi e sprezzanti nei confronti delle sue dirette superiori e dei vertici aziendali, precisando, quanto a Facebook, che il mezzo utilizzato è idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone e che la critica rivolta ai superiori, con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale (Cass. 13 ottobre 2021, n. 27939).

La valutazione giudiziale riguardo la rilevanza disciplinare del comportamento posto in essere dal lavoratore tiene conto delle circostanze del caso concreto, essendo stato, ad esempio, ritenuto ritorsivo il licenziamento di un dipendente – assunto a seguito di un precedente contenzioso – per aver pubblicato su una chat privata di Facebook, nella quale i lavoratori si scambiavano informazioni sull’incontro sindacale per il rinnovo del contratto integrativo, una vignetta satirica raffigurante un coperchio di vasellina cui era sovrapposto un disegno ed un noto marchio di moda, in quanto “libero esercizio del diritto di critica”, non integrante una potenziale lesione dell’immagine aziendale per via della diffusione della vignetta limitata ai soli partecipanti alla chat (Cass. 31 gennaio 2017, n. 2499).

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Sotto un diverso profilo, è interessante constatare che l’utilizzo di un Social (in termini di “relazione virtuale” con altri partecipanti) può avere delle scomode ricadute nei confronti del lavoratore, in quanto, in caso di scambio di messaggi, garantisce, in qualche modo, l’anonimato di un interlocutore (non essendovi certezza sull’identità del medesimo).

A tal riguardo, infatti, la Suprema Corte – esclusa la riconducibilità della fattispecie all’ipotesi di un controllo a distanza – ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore seguito all’iniziativa di un’azienda che, per accertare un comportamento illecito, aveva creato un falso profilo su un Social, contattando il dipendente sospettato ed inducendolo ad una conversazione virtuale in orario ed in luogo di lavoro (Cass. 27 maggio 2015, n. 10955).

Tra le fattispecie esaminate dalla giurisprudenza di merito, si ricorda che il Tribunale di Milano ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che aveva imbrattato con una frase scurrile un cartello di proprietà dell’azienda ospedaliera (ove il datore operava in virtù di un contratto di subappalto), ritenendo che la gravità di tale condotta fosse stata “amplificata” dalla pubblicazione, su Instagram e Facebook, di un filmato girato dallo stesso lavoratore (Tribunale Milano, 31 gennaio 2022, n. 2919).

La sentenza ha trattato alcuni temi, frequentemente esaminati in casi analoghi, tra cui l’utilizzabilità, ai fini probatori, di un video pubblicato sui Social.

In particolare, il Tribunale ha preliminarmente affermato che si tratta di fatti realizzati nel mondo reale, resi pubblici attraverso i Social, precisando che non può configurarsi una violazione dell’art. 4 Stat. Lav. (già esclusa, tra l’altro, da Cass. n. 10955/2015, cit.) in quanto “non si tratta di fatti commessi mediante lo strumento informatico e quindi ontologicamente connessi a tale strumento, come ad esempio una comunicazione diffamatoria”, evidenziando altresì che il lavoratore non aveva utilizzato uno strumento di comunicazione interno (chat o pagina aziendale), ma un profilo da lui stesso attivato per comunicazioni extralavorative.

In particolare, il Tribunale – richiamando principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità – ha chiarito che “una cosa è infatti la chat privata, circoscritta ad un determinato numero di persone, per la quale sussiste l’esigenza di tutela della libertà e della segretezza dei messaggi scambiati, da considerare come corrispondenza privata, chiusa ed inviolabile (cfr. Cass. Sent. 10 settembre 2018 n. 21965; Cass. sent. 13 ottobre 2021, n. 28939), una cosa è la pubblicazione (o meglio la condivisione) di un contenuto su un social network, attività di per sé diretta ad un numero indeterminato di persone”.

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4. Considerazioni conclusive.

All’esito di una generale disamina dei principi affermati dalla giurisprudenza, si deduce che, al fine di accertare l’illegittimità di un comportamento posto in essere da un lavoratore mediante l’utilizzo di un Social, assumono rilievo varie circostanze, tra cui: a) la gravità delle affermazioni, a prescindere dalla configurabilità di un reato, tenuto conto dell’eventuale legittimo esercizio del diritto di critica; b) il contesto in cui si è verificata la condotta ritenuta illegittima (ad esempio, il luogo o l’orario di lavoro); c) le motivazioni che l’hanno determinata; d) la diffusione e/o l’accessibilità ai contenuti, in quanto, come detto, la pubblicazione su piattaforme con ampia visibilità può amplificare la portata dell’offesa e, quindi, incidere maggiormente sul rapporto fiduciario.



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