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PRATO. La macchina per fare soldi si mette in moto nei porti della Grecia e della Slovenia, fa una sosta in Ungheria e si ferma nelle fabbriche di Prato, con la complicità di doganieri “distratti” e di colletti bianchi compiacenti. Così tanti imprenditori cinesi senza scrupoli (non tutti, ma molti) sono diventati milionari. Con la benedizione della Repubblica popolare cinese, che a parole invoca il rispetto delle regole, ma sottobanco si frega le mani per l’afflusso di valuta pregiata, frutto di evasione fiscale e sfruttamento di un esercito di lavoratori fantasma.
Questa la fotografia impietosa offerta dal procuratore di Prato, Luca Tescaroli, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro, lo sfruttamento e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Tescaroli ha parlato per oltre un’ora, raccontando un po’ di cose che a Prato si sanno da tempo e altre che si sanno un po’ meno. In particolare ha puntato l’indice contro i doganieri di Grecia, Slovenia e Ungheria, a suo dire poco efficienti (per non dire altro) nei controlli sulle merci in arrivo dalla Cina, i container che sbarcano nel porto del Pireo e nei porti sloveni, dirette alle fabbriche cinesi di Prato, ma bisognose di una sosta in Ungheria per evadere i dazi doganali e l’Iva, sfruttando il regime della sospensione d’imposta pensato dall’Europa per favorire la circolazione delle merci. Quella sosta, con l’interposizione di società “cartiere”, serve a scaricare su società fantasma il peso dei debiti fiscali, così le “pezze” di cotone e fibre sintetiche arrivano “leggere” a destinazione. E questo, ha spiegato il procuratore Tescaroli, è il primo danno. Il secondo danno si realizza a Prato, nelle fabbriche anonime del Macrolotto industriale, dove un esercito di pachistani, alcuni senza permesso di soggiorno, tutti senza diritti, lavorano dalle 12 alle 15 ore al giorno, sette giorni alla settimana, per ingrassare i profitti di tanti imprenditori senza scrupoli. Da qualche anno hanno iniziato a ribellarsi, ma è come svuotare il mare con un cucchiaino.
Anche a Prato, non solo in Ungheria, ci sono tante società fantasma. Sono quelle della catena “apri e chiudi”, vengono intestate a teste di legno grazie ai consigli di commercialisti e consulenti del lavoro pratesi, si assumono il carico fiscale e spariscono prima che l’Agenzia delle entrate arrivi a chiederne conto. Spesso i macchinari restano fisicamente nello stesso capannone, affittato a prezzi stellari dagli immobiliaristi pratesi: cambia solo la ragione sociale e tutto ricomincia da capo.
«I proventi di queste attività – ha spiegato il procuratore Tescaroli – non vengono reinvestiti nel nostro paese. Gli imprenditori cinesi non hanno la vocazione a radicarsi, affittano i capannoni e i profitti tornano in Cina attraverso diversi canali. La raccolta avviene anche con vere e proprie “banche”, in certi casi gestite da soggetti che hanno rapporti con la criminalità organizzata». Oltre agli “spalloni” e ai money transfer, ha aggiunto il procuratore, c’è un sistema di conti correnti postali o bancari che vengono trasformati in criptovaluta. Ci sono “exchanger” in Germania, in Slovenia, ma anche alle Seychelles, che trasformano i bitcoin in contante e lo riportano in Cina.
La Cina, a proposito, collabora con le autorità italiane? La risposta del procuratore è senza peli sulla lingua: no, non collabora. «Eppure – dice Tescaroli – la Repubblica popolare cinese avrebbe interesse ad avere un avamposto del proprio paese all’estero che si muova nella legalità, perché dalle intercettazioni si capisce che la Cina gradisce questo afflusso di valuta pregiata».
Che fare, dunque? Il Parlamento e la magistratura possono fare poco con l’Europa, figuriamoci con la Cina, ma possono fare qualcosa in Italia, soprattutto a Prato.
Sollecitato dai senatori della commissione, Tescaroli ha buttato giù qualche idea. Per esempio usare per la criminalità straniera le norme di protezione straordinaria sui collaboratori e i testimoni di giustizia, che ora si possono applicare solo ai cittadini italiani.
Il progetto “Lavoro sicuro”, cioè i controlli a tappeto sulle confezioni cinesi iniziati dopo la tragedia della Teresa Moda (7 morti nell’incendio del 1° dicembre 2013) sono stati «un’ottima iniziativa» dice Tescaroli. Lo dimostrano le 885 notizie di reato in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro arrivate in Procura dal 1° luglio 2023 al 30 giugno 2024 (in crescita rispetto all’anno precedente). Era stato istituito un pool di cinque ispettori che indagavano proprio su questo e ora si sono ridotti a due. Il presidente Eugenio Giani ha assicurato a Tescaroli che entro il 31 gennaio il gruppo verrà reintegrato. La guardia di finanza ha mandato 7 nuovi ispettori alla fine dell’anno, la polizia tre ispettori e due assistenti, in attesa dei carabinieri e dell’Agenzia delle entrate. Insomma, qualcosa si muove.
Ma è chiaro che sarebbe più semplice agire a monte anziché a valle. Nel libro dei sogni c’è uno strumento informatico che riesca a monitorare gli spostamenti delle merci in Europa. Solo così si renderebbe inutile quella famosa fermata dei container di tessuti in Ungheria. Restando più coi piedi per terra, in Italia, dice ancora il procuratore, sarebbe utile un inasprimento delle pene per certi reati fiscali, non tanto nel massimo ma nel minimo edittale. E magari regole diverse e più stringenti per la costituzione di società. Se servisse un capitale maggiore per aprire un’azienda individuale, forse sarebbe meno conveniente creare le società fantasma. E per volare ancora più basso, intanto si potrebbe risolvere il problema degli interpreti. In quelli di lingua cinese si avverte «un certo timore», ha spiegato Tescaroli, quando vengono chiamati in aula. Sono andati a cercarli in Umbria e in Emilia, lontano da chi li potrebbe intimorire, ma ancora non sono sufficienti.
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