Iran, la fabbrica delle condanne a morte

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L’Iran ha giustiziato 901 persone nel 2024, segnando un preoccupante aumento dei casi di pena di morte. Lo ha affermato martedì 7 gennaio Volker Türk, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Circa quaranta di questi sono stati giustiziati in una sola settimana di dicembre. L’anno precedente, il numero non è stato meno drammatico, 853 persone secondo l’alto commissario. Le fonti utilizzate vengono “da alcune organizzazioni per i diritti umani che consideriamo affidabili, tra cui Hrana, Hengaw e Iran human rights (Ihr)”.

L’Organizzazione Hengaw per i diritti umani, una Ong di esuli iraniani con base in Norvegia, particolarmente attenta ai diritti dell’etnia curda, ha pubblicato un rapporto completo che documenta tutte le violazioni dei diritti umani in Iran nel 2024, tra le quali risalta il gran numero di persone giustiziate. Nel rapporto emerge un grave aumento delle esecuzioni, quindi arresti arbitrari e violenze sistematiche, delineando quello che è stato un anno contraddistinto dall’oppressione. Sempre secondo Hengaw, 13 tra le persone giustiziate erano state condannate a morte per attività politiche o religiose o per la presunta partecipazione al movimento “Donna, Vita, Libertà” e di questi 10 erano curdi.

“Ci opponiamo alla pena di morte in ogni circostanza”, ha ribadito Türk. “È incompatibile con il diritto fondamentale alla vita e aumenta il rischio inaccettabile di giustiziare persone innocenti. E, per essere chiari, non può mai essere imposta per una condotta protetta dal diritto internazionale dei diritti umani”.

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Chi sono i condannati a morte 

I destinatari della controversa pena sono nella maggior parte dei casi persone condannate per reati relativi alla droga, 472 casi quindi il 52% del totale delle esecuzioni. I restanti erano dissidenti e persone coinvolte nelle proteste del 2022-2023.

In Iran, il problema della droga è complesso e radicato, influenzato dalla posizione geografica del Paese, che si trova lungo la principale rotta del narcotraffico che collega l’Afghanistan, il maggiore produttore mondiale di oppio, con l’Europa e altri mercati globali. Lungo i suoi confini, spesso difficili da controllare, passano enormi quantità di droga, mentre all’interno del Paese il consumo è diffuso a causa della disponibilità e del basso costo di sostanze come oppio e metanfetamina. L’alto tasso di dipendenza, tra i più elevati al mondo, è alimentato dalla povertà, dalla disoccupazione e da problemi sociali, aggravati dalle restrizioni culturali e dall’assenza di mezzi per affrontare stress o depressione.

Secondo Ihr, “molte donne messe a morte per omicidio erano vittime di violenza domestica o abusi sessuali che hanno agito per disperazione”. Ciò che spinge le donne a commettere crimini, in questi specifici casi, non è altro che una condizione imposta dal governo stesso. Le donne vivono infatti in condizioni di perenne pericolo, soprattutto nel momento in cui si rifiutano di seguire le regole imposte dal governo attuale. Secondo il rapporto di Hangaw, sono state giustiziate 30 donne, di cui 5 avevano meno di 18 anni al momento della commissione dei reati.

Questi crimini non sono semplicemente il risultato di scelte individuali, ma piuttosto il prodotto di un contesto di oppressione sistemica imposto dal governo. Le leggi discriminatorie e le politiche repressive creano un ambiente in cui la violenza e l’ingiustizia diventano parte integrante della vita quotidiana, spingendo le persone, specialmente le donne, a compiere azioni disperate per sopravvivere.

Le donne, in particolare, vivono in condizioni di costante pericolo, aggravate dalla mancanza di protezione giuridica e sociale contro abusi e violenze. La repressione non solo le priva dei loro diritti fondamentali, ma le isola e le rendono ancora più vulnerabili, trasformandole in facili bersagli di una società patriarcale e di un governo oppressivo. In questo contesto, molte delle azioni considerate “crimini” sono in realtà atti di disperazione o resistenza contro condizioni insostenibili, create e perpetuate da un sistema che limita la libertà individuale, nega la giustizia e criminalizza ogni forma di opposizione.

Simile è la sorte dei dissidenti politici o di coloro che hanno partecipato alle proteste, spesso accusati di crimini senza fondamento. In questi casi, l’esercizio di diritti fondamentali come la libertà di pensiero o di manifestazione viene considerato una minaccia nei confronti del regime e punito con la pena capitale. Si tratta di un sistema che, lungi dal garantire sicurezza o giustizia, trasforma in “crimine” la stessa lotta per una vita più dignitosa e libera.

Il Paese con più condannati al mondo

I dati raccolti da alcune organizzazioni per i diritti umani portano a sostenere che l’Iran sia il Paese che effettua più esecuzioni al mondo. Si suppone che possa essere preceduto solo dalla Cina, ma non sono disponibili dati a riguardo.

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Türk ha sollecitato le autorità iraniane a interrompere immediatamente ogni ulteriore esecuzione e a introdurre una moratoria sull’uso della pena di morte, come passo verso la sua completa abolizione. Attualmente, sottolinea l’ONU, circa 170 Stati hanno già abolito la pena capitale o adottato una moratoria sulle esecuzioni.

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