All’inizio dell’anno ho ricevuto dalla mia bravissima medica di famiglia una mail con cui annunciava che da febbraio “cambierà lavoro”. Non so esattamente che cosa andrà a fare, se passerà al privato o si dedicherà ad altro, ma la notizia non mi ha affatto stupito. Prima che la scegliessi come medico di medicina generale per me e per la famiglia, e che la consigliassi a tutti, Silvia era già un’amica: umana, attenta, scrupolosa, aggiornata, appassionata al suo lavoro, cui si dedicava con tutta se stessa. Forse troppo, tanto che già l’ultima volta che l’ho vista, pochi mesi fa, mi aveva confidato che non ce la faceva proprio più, e che era tentata di mollare.
Non è l’unica: dal 2012 al 2022, in tutta Italia, hanno rinunciato alla convenzione con il Servizio sanitario nazionale circa 6.000 medici di medicina generale, 1.000 dei quali in Lombardia. Nel biennio successivo, passata la tempesta dei primi, terribili, mesi di pandemia, il fenomeno, invece che frenare, ha accelerato. Secondo l’Osservatorio giovani della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), dai circa 45.000 medici di medicina generale del 2013 si è arrivati ai poco più di 35.000 del 2024. Si sono persi quindi quasi 10.000 professionisti in meno di 10 anni. La Federazione dei medici di medicina generale (FIMMG) stima che, nell’anno appena concluso, ci fosse già sul territorio una carenza di professionisti del 30% rispetto al fabbisogno.
Mi trovo quindi in buona compagnia: come me, sono 3-4 milioni gli italiani senza un medico cui rivolgersi. La previsione è ancora più cupa: entro il 2027 si prevede che a non avere a disposizione un punto di riferimento per l’assistenza primaria sarà un italiano su 4. I medici di famiglia rimasti cercano di compensare accettando più persone nelle loro liste, per cui si è passati da una media di 1.156 assistiti per medico nel 2012 a 1.301 nel 2022. E in regioni come la Lombardia, il numero massimo consentito di assistiti è stato portato a 1.800. Che succede, poi, quando anche solo il 5-10% ha bisogno di un consulto? Quando febbre, tosse, malanni di stagione si aggiungono ai mal di schiena, ai disturbi digestivi, ai mal di testa, ai sintomi da approfondire? Sono ogni giorno decine e decine di telefonate, di visite, di ricette e richieste di esami. Non dovremmo arrabbiarci se troviamo sempre occupato o se, per poter visitare qualcuno o affrontare un discorso delicato, il medico stacca il telefono o lo imposta sul silenzioso.
È chiaro che nella medicina generale (ma anche in alcuni settori ospedalieri, come i pronto soccorso) si crea così un terribile circolo vizioso: meno medici, più pazienti per ciascun medico, meno tempo per ciascun paziente, maggiore insoddisfazione dei cittadini, atteggiamento più aggressivo o impaziente (quando non francamente violento), che si scontra con professionisti sempre più oberati, al punto di lasciare. E così la situazione precipita sempre più.
Anche perché la media dei medici italiani ha già i capelli bianchi. Il 77% di quelli che esercitano hanno superato i 55, ed è normale quindi che la loro resistenza alla fatica vada calando e ogni anno un numero significativo di loro si conceda un meritato riposo. Altri, che potrebbero restare in servizio per almeno altri 10-15 anni, come la mia dottoressa, invece lasciano perché il lavoro è diventato insostenibile. Non solo per il numero di assistiti, sia chiaro.
Ci sono già milioni di italiani senza medico di medicina generale. Entro il 2027 saranno più di uno su 4. Con una popolazione sempre più anziana, senza questo filtro sul territorio, come si potranno alleggerire i pronto soccorso e accorciare le liste di attesa per visite specialistiche?
Da un lato, la popolazione invecchia, per cui i bisogni di salute di 1.000 cittadini di oggi sono maggiori di quelli di vent’anni fa; dall’altro il sistema, nonostante le sue innovazioni, invece che facilitare la vita al medico gliela complica. Ci si aspetta che avere il computer in studio possa semplificare la gestione delle cartelle, che avere accesso diretto ai risultati degli esami sul portale regionale possa far risparmiare un sacco di tempo e di errori, e invece…invece si è riusciti a incrementare tanto il carico burocratico da neutralizzare i vantaggi di queste tecnologie, con tutte le difficoltà aggiuntive derivanti dalla mancanza di uniformità tra i linguaggi usati dalle diverse componenti del Servizio sanitario regionale. Non parliamo poi di quello che accade tra diverse Regioni.
Intanto i pazienti sono diventati sempre più esigenti, e la loro maggiore conoscenza dei temi della salute, invece di essere un mezzo per arrivare a una migliore alleanza terapeutica, si trasforma talvolta in un atteggiamento supponente che mira il rapporto alle radici. A questo contribuiscono anche gli specialisti, che spesso considerano il medico di medicina generale come un semplice passacarte, che deve solo trascrivere su ricetta del Servizio sanitario nazionale le loro indicazioni, anche quando non le condivide.
In tutto ciò il medico si sente più un impiegato che un professionista e può finire per pensare di aver sprecato tanti anni di studio e di sacrifici. E questo ci porta al perché i giovani medici non vogliano andare a rimpiazzare quelli che abbandonano o vanno in pensione.
In Italia si sente spesso parlare dei medici di famiglia come di una categoria privilegiata, molto ben pagata e che lavora poco. Due diversi servizi di Dataroom, di Milena Gabanelli, sul Corriere della sera, ne hanno parlato addirittura come di una lobby di interessi o di una lobby di potere. A uno sguardo superficiale, infatti, i massimalisti, quelli cioè che hanno il massimo numero di persone da assistere previsti dalla legge, dalle 1000 in su, sono tenuti ad aprire l’ambulatorio solo per un minimo di 15 ore settimanali. Gli altri, anche meno. Sembrerebbe quindi che al massimo i medici di famiglia lavorino solo tre ore al giorno per cinque giorni a settimana, ma in realtà, nella maggior parte dei casi, l’orario di studio si dilata in caso di necessità. A questo si aggiungono le visite a domicilio a chi non si può muovere, i consulti con i colleghi, ma soprattutto le pratiche burocratiche. I medici di famiglia dicono che almeno la metà del loro lavoro quotidiano è dedicata alla burocrazia. Per non parlare delle ore passate al telefono o a rispondere ai messaggi e-mail e su whatsapp.
A fronte di tutto ciò il medico massimalista riceve un rimborso per ogni paziente da parte del Servizio sanitario nazionale di almeno 35 euro (“quota capitaria”, raddoppiata a 70 euro se ha meno di 500 assistiti): per un massimalista si stima quindi un’entrata base di 35.000 euro lordi l’anno se ha 1.000 pazienti, 52.500 – pari a 4.300 euro lordi al mese – se gli assistiti sono 1.500. A questa cifra base vanno poi aggiunti vari bonus e scatti di anzianità, per cui dopo qualche anno di esperienza si possono raggiungere i 100.000, e molto più in là nella carriera anche superare i 150.000 euro annui. Una bella cifra, certo, ma non bisogna farsi trarre in inganno. Si parla sempre di reddito lordo, che si dimezza con tasse e contributi, e da cui vanno poi sottratte le spese relative all’ambulatorio (dall’affitto al riscaldamento, dalle spese condominiali alle pulizie), al mezzo per muoversi quando occorre recarsi a domicilio, all’eventuale infermiere/a o segretario/a dello studio, al pagamento di uno o di una sostituta se si sta male o si vuole andare in vacanza, dal momento che la convenzione non prevede ferie o malattia. In quanto libero professionista sono a suo carico anche tutte le altre spese, dall’acquisto del computer a quello della carta igienica.
Forse così si capirà quindi perché non c’è la coda per diventare medico di famiglia. Anzi, al concorso dell’autunno scorso per assegnare le borse di specializzazione in medicina generale, si è ripetuta la stessa scena degli anni precedenti, con molti più posti di quante siano le persone che li richiedono. “In alcune zone ci sono il 40-50% in meno di borse assegnate rispetto a quante ne sono finanziate. Questo significa che tra 3-4 anni, quando andranno in pensione 7-8.000 medici, non riusciremo a inserire più di 1.000-1.200 nuovi professionisti l’anno, a fronte di 2.000 necessari”, ha dichiarato il segretario della Federazione italiana di medici di medicina generale Silvestro Scotti.
Ma questo non dipende affatto dalla tanto invocata, ma inesistente, “mancanza di medici”. Come ti dicevo a luglio parlando di sanità, oggi il numero di medici in Italia è superiore a 4 per 1.000 abitanti, perfettamente nella media dei paesi OCSE, più di quanti ne abbiano la Francia o il Canada. C’è stato senza dubbio, in passato, un errore di programmazione, che ha portato a un momento in cui c’erano meno medici in formazione di quanti andassero in pensione, ma questa emergenza è già largamente rientrata. Sempre secondo l’osservatorio FNOMCeO, dal 2027 i neo laureati in medicina supereranno i pensionati, tanto che, nel 2030, ci saranno 12.000 laureati in più rispetto a pensionamenti e dimissioni.
Non mancano i medici. Mancano gli infermieri, quelli sì, eppure anche la disponibilità di posti nelle facoltà di infermieristica spesso supera le domande. Non c’è confronto tra l’impegno richiesto e gli stipendi di questa categoria professionale, per la quale non c’è ancora un adeguato riconoscimento, né a livello economico, né a livello sociale, della competenza e dell’autonomia che ha altrove. Come diceva la medica e deputata Marianna Ricciardi l’altro giorno a Tagadà su La7, sono poi spesso i neolaureati in medicina a doversi occupare di attività di pertinenza infermieristica, e le risorse non sono così sfruttate al meglio. Il numero assoluto dei medici in attività, invece, di per sé sarebbe del tutto sufficiente. Manca un numero sufficiente di giovani che scelga specialità impegnative o più difficilmente integrabili con l’attività privata come medicina e chirurgia di urgenza, anestesia e rianimazione, virologia, radiologia e radioterapia, ma soprattutto mancano medici di famiglia. Strano, vero, se è una professione così facile, comoda e remunerativa?
Il senatore Franco Zaffini, presidente della 10ª Commissione Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato – che ha partecipato con me e Marianna Ricciardi a Tagadà giovedì scorso – mi ha fatto sobbalzare sulla sedia quando ha dichiarato che il Governo ha già fatto TUTTO IL POSSIBILE per rimediare alla crisi della medicina territoriale: ha allargato le maglie dell’accesso alla facoltà di medicina (attenzione che non è affatto stato “abolito” il numero chiuso come è stato detto) e ha consentito ai medici che lo desiderano di restare a lavorare su base volontaria fino a 72 anni, eventualmente con un minor numero di assistiti. Ora non resta che aspettare che gli studenti finiscano il loro lungo percorso. Il resto è colpa dei governi del passato e della loro scarsa programmazione.
“Si è già fatto tutto il possibile?” Sinceramente mi è sembrata una posizione molto comoda e un po’ disfattista, o forse, in linea con gli interessi dei grandi gruppi della sanità privata che stanno costellando le città di poliambulatori privati e offrono servizi a pagamento di medicina generale, con visite a domicilio accompagnate da prelievi di sangue, ecografia o altre prestazioni. Con prezzi non certo alla portata di tutti.
Non credo nemmeno che, al di là di casi particolari, la soluzione possa essere far venire medici dall’estero: a parte il problema della lingua – che non può essere sottovalutato in un’attività in cui la relazione fa tanto – con il reddito dei medici italiani si possono attirare professionisti solo da Paesi a medio o basso reddito. Oltre a non poter scommettere sulla loro preparazione, si pone anche una questione etica, dal momento che si sottrae a nazioni in difficoltà anche maggiori della nostra una risorsa indispensabile per il loro sviluppo, e su cui hanno tanto investito.
Prima di tutto, occorre equiparare la borsa di studio per gli iscritti alla scuola di medicina generale – che attualmente è di 800 euro al mese – a quella delle altre specialità,
Ci sono invece molte altre cose che il governo potrebbe fare per affrontare il problema. Ne cito solo tre, semplici semplici, ma sono sicura che le associazioni di medici ne avrebbero tante altre da aggiungere. Prima di tutto, equiparare la borsa di studio per gli iscritti alla scuola di medicina generale – che attualmente è di 800 euro al mese – a quella delle altre specialità, che va dai 1.200 ai 1.600 euro al mese. Un’iniquità che certo scoraggia i neolaureati a scegliere questa strada. Secondo, favorire più di quanto già si faccia la medicina di gruppo all’interno delle Case della salute, dove il Servizio sanitario nazionale mette a disposizione strutture, personale infermieristico e amministrativo che si occupi di tutte quelle attività che non sono di competenza strettamente medica. Terzo, alleggerire la burocrazia. Sotto questa voce ci sarebbero tante cose da fare. Perché non cominciare togliendo l’obbligo per il medico di visitare DI PERSONA un lavoratore per dargli anche un solo giorno di malattia. Perché deve essere il dottore a prendersi la responsabilità di “certificare” che una persona ha mal di testa, ha forti dolori mestruali o ha vomitato tutta la notte, senza alcun mezzo per poterlo provare? E perché deve essere il medico a trasmettere il documento all’INPS e all’azienda?
Adeguare questa norma a quella degli altri Paesi, responsabilizzando il lavoratore ed evitando di mettere in mezzo il medico per ogni malessere, lasciandolo solo per malattie di rilievo, eviterebbe migliaia di visite inutili, libererebbe tempo per parlare con i malati e potrebbe anche aumentare la produttività del nostro paese. Perché se è vero che qualcuno ne approfitterà per restarsene a letto qualche mattina in più, altri più ligi non dovranno perdere mezze giornate in più per andare dal medico a farsi visitare quando ormai stanno bene e potrebbero tornare subito al lavoro.
Consoliamoci comunque che se in Italia siamo in difficoltà, in altri grandi Paesi europei e occidentali, fatte le dovute differenze tra i vari sistemi sanitari, le cose non vanno molto meglio.
Nel Regno Unito la crisi è molto simile alla nostra, con ogni singolo medico di medicina generale a tempo pieno che si trova a dover assistere oggi in media 2.264 cittadini, mentre 10 anni fa non arrivavano a 2.000.
Con la Grecia condividiamo la distorsione di un alto numero di medici, ma per lo più specialisti, con pochi professionisti delle cure primarie. Un rapporto stilato dall’Osservatorio Conti Pubblici italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano mostra che, sul totale dei medici, l’Italia (con Bulgaria, Repubblica Ceca e Ungheria) ha in percentuale più specialisti della media degli altri paesi europei (78% vs 68%), ma meno medici di famiglia, mentre l’Irlanda addirittura capovolge il rapporto, con oltre la metà dei medici che operano sul territorio.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, uno Special Report pubblicato questa settimana dal New England Journal of Medicine descrive un quadro in cui, alle difficoltà sopra descritte, se ne aggiungono altre, specifiche del grande paese nordamericano che (tra l’altro) si prepara ad accogliere col nuovo/vecchio presidente Trump una serie di figure che potrebbero dare una ulteriore mazzata alla difesa della salute. Ne ho parlato qui.
Negli USA le diseguaglianze, anche nell’accesso ai servizi sanitari, sono molto maggiori che in Italia, non solo per questioni economiche, ma anche razziali (nel senso di razziste) e culturali (anche con la disponibilità economica, è difficilissimo orientarsi nel sistema sanitario americano). Ci sono poi aspetti geografici, legati per esempio alle grandi distanze, che rendono difficile per alcuni raggiungere i centri di eccellenza, ma anche ottenere una visita da un medico delle cure primarie. Durante la pandemia si verificò per esempio che l’80% degli americani viveva in una contea (per lo più rurale) dove non c’era nemmeno un infettivologo. Più in generale, nelle aree rurali, nel 2019, i tassi delle 10 principali cause di morte così come della mortalità in generale erano più elevati che nelle aree urbane. I fattori sono diversi, ma esiste una chiara associazione tra le zone in cui questi indicatori di salute negativi sono maggiori e la carenza in quei luoghi di un numero sufficiente di medici di famiglia. Da 50 anni sono quindi attive politiche di incentivi per incoraggiare i medici a trasferirsi in queste aree, dove la loro mancanza si fa sentire di più. Purtroppo la politica non ha ottenuto grandi risultati, se ancora oggi il numero di medici attivi per 100.000 abitanti è più del doppio in Massachusetts che in Mississippi.
USA: in verde le aree dove sono più carenti gli operatori sanitari delle cure primarie
Dove c’è più carenza di medici delle cure primarie (aree verde scuro nella mappa in alto), l’aspettativa di vita alla nascita tende a essere inferiore (mappa in basso). Le due immagini, nell’articolo sul New England Journal of Medicine, si accompagnano ad altre che mostrano una distribuzione simile anche per il numero di ictus, malattie respiratorie (BPCO) e depressione.
Ci sarebbero aggiornamenti su altri temi che abbiamo trattato, ma nulla di così urgente che non ci possa tornare nei prossimi giorni. Quella che si sta chiudendo è stata infatti per me una settimana molto difficile, col mio papà che mi ha fatto prendere un brutto spavento. Ora è in ospedale, supermonitorato e sta bene, ma io mi devo ancora riprendere un po’ (oltre a coccolare insieme a Bruno la Biba che si sente persa più che mai). Il mio quindi spero che sarà un weekend di riposo, e lo auguro anche a te!
Intanto Bruno non perde occasioni per fotografarmi di sorpresa in quelle che lui definisce “espressioni intense”
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