Donald Trump e l’America che verrà

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Per l’inquilino della Casa Bianca sarà fondamentale impegnarsi a superare le polarizzazioni che da anni contraddistinguono la vita politica americana. Gli Stati “disuniti” d’America sarebbero un grave pericolo per un mondo già lacerato e frammentato. L’editoriale de L’Osservatore Romano sulle sfide del nuovo presidente USA

Alessandro Gisotti

No, la storia “non è finita” con la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Unione Sovietica. Quella che era stata un’illusione di alcuni politologi ed esponenti politici alla fine del secolo scorso si è rivelata drammaticamente sbagliata. Del resto già all’alba del xxi secolo lo si era compreso con l’evento “impensabile” dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle che ha determinato un lugubre risveglio per chi immaginava un’era di stabilità mondiale nel segno dell’economia liberale. In questi oltre 30 anni da quello storico giorno in cui con il Muro si sgretolava anche uno dei sistemi totalitari più liberticidi della storia, l’umanità ha conosciuto un numero sempre crescente di conflitti che da locali sono diventati regionali fino ad assumere l’angosciante profilo di quella che, con profetica precisione, Papa Francesco già da anni definisce la “Terza Guerra Mondiale a pezzi”. La storia dunque è tutt’altro che finita.

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In questo quarto di secolo, un secolo che — per riprendere ancora il Pontefice — sta segnando un “cambiamento d‘epoca” ancor più che “un’epoca di cambiamento”, si sono anche rimodulate le forze delle grandi potenze economiche, politiche e militari del pianeta. Oggi viviamo in un mondo multipolare che rende la ricerca degli accordi, specie nelle situazioni di crisi, più complessa e meno lineare. E tuttavia, questo è il mondo in cui viviamo e il principio di realtà richiede a tutti i leader (soprattutto a quelli con maggiore potere) di prendere atto che le grandi sfide del nostro tempo vanno affrontate con paradigmi nuovi, con quella creatività che rifiuta l’atteggiamento del “si è sempre fatto così”.

È in questo contesto storico che lunedì prossimo Donald Trump giurerà per la seconda volta di difendere la Costituzione degli Stati Uniti e di servire il popolo americano. Un evento, come già ampiamente è stato detto e scritto, che ha dei tratti per molti aspetti inediti e al quale si guarda con speranza e preoccupazione perché a nessuno sfugge — pure in un mondo dove non c’è più una sola super potenza — quanto gli Stati Uniti possano ancora incidere nelle dinamiche politiche ed economiche internazionali. Il presidente eletto Trump ha più volte dichiarato che si impegnerà per la fine della guerra in Ucraina. Ha dichiarato inoltre che sotto la sua presidenza gli Usa non saranno coinvolti in alcun nuovo conflitto. Sarà da vedere quale atteggiamento avrà nei confronti degli organismi internazionali.

Immigrazione, ambiente, sviluppo economico (sempre più trainato dalla tecnologia) sono tra i temi chiave su cui il quarantasettesimo inquilino della Casa Bianca sarà osservato con grande attenzione non solo dal popolo americano ma da tutta la comunità internazionale.

Storicamente, gli Stati Uniti d’America hanno dato il meglio di sé quando si sono aperti al mondo (le Nazioni Unite sono in fondo “un’invenzione americana”) e assieme ai propri alleati hanno costruito un sistema che — con i limiti di ogni opera umana — ha garantito libertà, sviluppo economico e progresso nei diritti umani. È successo con presidenti repubblicani e con presidenti democratici. Un’America ripiegata su sé stessa sarebbe dunque un controsenso.

Il presidente Trump è chiamato a lavorare per superare le divisioni e le polarizzazioni che ormai da anni contraddistinguono la vita politica americana e che hanno avuto nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 una delle date più tristi della storia nazionale. È un compito difficile, certamente. Eppure necessario per la nuova Amministrazione. Perché gli Stati “disuniti” d’America sarebbero un grave pericolo per un mondo già lacerato e frammentato.

Dieci anni fa, Papa Francesco — il primo Papa venuto dalle Americhe — si rivolgeva al Congresso degli Stati Uniti pronunciando un discorso che metteva l’accento sui valori fondanti della nazione americana. Un intervento la cui lettura potrebbe essere utile anche al presidente Donald Trump e al vice-presidente J.D. Vance.

Un discorso, applaudito numerose volte in modo trasversale dall’emiciclo di Capitol Hill, che indicava in quattro figure di grandi americani le stelle polari che, anche in questa era turbolenta, possono aiutare a tracciare la rotta di chi è chiamato ad incarichi di responsabilità politica. «Una nazione — concludeva Papa Francesco — può essere considerata grande quando difende la libertà, come ha fatto Lincoln; quando promuove una cultura che consenta alla gente di ‘sognare’ pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come Martin Luther King ha cercato di fare; quando lotta per la giustizia e la causa degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro, frutto di una fede che diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo di Thomas Merton». Sono questi i valori che hanno fatto grande l’America. E di cui il mondo ha ancora bisogno. 



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