La retromarcia sulle pensioni | LibertàEguale

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Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 


di Marco Leonardi

La vicenda dell’INPS che anticipa l’allungamento dell’età pensionabile di 3 mesi e poi è costretto alla retromarcia, mette in luce come il governo ha rinviato a dopo le prossime elezioni alcune scelte fondamentali per il paese. Questa infatti è la terza legge di bilancio del governo Meloni che evita le scelte sui temi importanti. Sulla riforma delle pensioni se ne parla dopo il 2027; sulla concorrenza, per quanto riguarda i balneari e molto altro, le gare sono rinviate e dopo il 2027; perfino per la riduzione del debito pubblico, l’Italia insieme alla Francia ha ottenuto che i vincoli di riduzione della spesa diverranno cogenti dopo il 2027. Solo una cosa non è stata rinviata: il rinnovo delle concessioni della distribuzione dell’elettricità, ma solo perché a pagarla (qualche decina di miliardi) saranno i contribuenti in bolletta, senza manco accorgersene. Un emendamento (il numero 7) della legge finanziaria appena approvata ha allungato di altri vent’anni tutte le concessioni, eliminando ogni obbligo di gara. I concessionari (piccoli e grandi, ce ne sono centinaia) verseranno un contributo una tantum allo stato in cambio dell’estensione delle concessioni. Ma con una trovata senza precedenti, l’emendamento stabilisce che i concessionari recupereranno tale contributo in bolletta, addirittura maggiorato del loro presunto costo del capitale per la precisione al 5,6% annuo, un tasso molto più alto di quello di mercato.

Ma torniamo al tema pensioni e vediamo se il governo riuscirà a congelare il problema fino a dopo il 2027. L’allungamento dell’aspettativa di vita comporta sia un impatto sul “quando” si può andare in pensione (sempre più tardi), sia sul “quanto” si prende di pensione (sempre meno, perché, a parità di contributi versati bisognerà pagare pensioni più lunghe). Ci sono due leve che tengono in equilibrio la spesa pensionistica con l’andamento della demografia.  Le due leve sono i cosiddetti coefficienti che impattano sull’ammontare, il “quanto” della pensione, e i requisiti di anzianità contributiva o di età che impattano sul “quando” potremo accedere alla pensione.

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Per come funziona il sistema contributivo, alla fine della vita lavorativa tutto il montante dei contributi versati vengono tramutati nell’ammontare del tuo assegno mensile di pensione attraverso i cosiddetti coefficienti di trasformazione.  I coefficienti di trasformazione sono soggetti a revisione ogni due anni (l’ultima volta a novembre 2024) e più si allunga l’aspettativa di vita più si riduce il coefficiente di trasformazione in modo da “spalmare” il tuo montante contributivo su un periodo più lungo di erogazione della pensione. Fin qui tutto ok, il coefficiente di trasformazione si applica ma “non si vede”, e quindi potremmo dire “occhio non vede, cuore non duole”.

Quello che si nota molto di più è invece il “quando” puoi andare in pensione e se questo “quando” viene sempre più posticipato. Poiché il sistema non è del tutto basato sul contributivo, ma per altri 10 anni almeno avremo pensionandi basati sul vecchio sistema misto-retributivo, bisogna regolare anche il “quando” puoi andare in pensione, e qui la regola dice che ogni tre anni si calcola l’aspettativa di vita e si postpone il requisito per andare in pensione dei mesi equivalenti in modo ridurre la durata dell’erogazione della pensione e mantenere in equilibrio la spesa pensionistica. Tanto è vero che il governo Lega-5stelle nel 2018 fece due cose sulle pensioni: quota 100, la più spettacolare, per la durata di un triennio; il blocco dei requisiti fino a tutto il 2026 al punto a cui erano arrivati in quel momento e cioè 42 anni e 10 mesi di versamenti contributivi per gli uomini e uno in meno per le donne per accedere al pensionamento anticipato. Quello che pochi sanno è che il costo per l’erario pubblico del blocco dei requisiti di accesso alla pensione è molto elevato, nell’ordine di miliardi, per il fatto che circa due terzi delle persone ogni anno accede a pensione attraverso il requisito dei 42 anni e 10 mesi di contributi. Se tutti andiamo in pensione 3 mesi prima di quanto prevedrebbe la legge vigente, ovviamente l’anticipo di cassa è sostanziale.

E veniamo all’oggi. Dopo lo stop del Covid, l’aspettativa di vita ha riiniziato a crescere e il blocco per legge dei requisiti finisce nel 2026, questo significa che nel 2027 si dovrebbe andare in pensione 3 mesi più tardi, a 67 anni e 3 mesi o a 43 e 1 mese (un anno in meno per le donne). Se il governo ha cambiato idea e fa una retromarcia sostanziale, e non solo formale come quella cui ha costretto l’INPS, potrà giustificarlo dicendo che il tema pensioni ha bisogno di una riforma complessiva per rimanere sostenibile. Ma dovrà trovare i soldi per rinviare il tutto a dopo il 2027, ed è bene che si sappia che per queste cose di solito pagano i pensionati con le pensioni più alte a cui viene tagliata la rivalutazione e i lavoratori dipendenti sopra i 35 mila euro di reddito annuo che pagano sempre più tasse attraverso il fiscal drag.



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