Quando Cecilia Sala è stata liberata, il desiderio della giornalista e della sua famiglia è stato subito quello di chiudere un doloroso capitolo e voltare pagina. Dopo avere affidato il proprio racconto ad una puntata del podcast Stories, la ventinovenne ha fatto sapere di voler tornare a raccontare nuove storie, le storie di altri, guardando oltre per superare il trauma che quel periodo di detenzione ha rappresentato per lei. Nonostante la fatica a prendere sonno la notte sia ancora tanta, come rivela lei stessa, Cecilia ha scelto di condividere per un’ultima volta gli orrori dal carcere di massima sicurezza di Evin a Che tempo che fa, dove è stata ospite ieri sera, 19 gennaio.
Ventun giorni di prigionia, in una cella due metri per tre, senza un letto dove dormire né un cuscino, ma solo due coperte ad avvolgerla e proteggerla. Chiusa alle sue spalle una porta blindata con una feritoia che, quando aperta, faceva arrivare urla, pianti di disperazione, tentativi di suicidio — “in una cella accanto c’era una ragazza che prendeva la rincorsa per sbattere più forte che poteva la testa contro la porta” —, conati di vomito. È l’inferno in terra di Evin, dove centinaia di donne iraniane e non solo sono detenute ingiustamente, come l’attivista e premio Nobel per la pace l’attivista e premio Nobel per la pace Narges Mohammadi Narges Mohammadi. Qui Cecilia Sala ha sperimentato l’atrocità di un sistema che fa leva sulla tortura psicologica per estorcere qualsiasi genere di confessione.
“Nei primi 15 giorni della detenzione mi interrogavano tutti i giorni — racconta —. Il giorno prima del rilascio mi hanno tenuta dieci ore di fila, sempre incappucciata faccia al muro. In uno degli interrogatori sono crollata e mi hanno dato una pasticca per calmarmi. Mi interrogava sempre la stessa persona in perfetto inglese e da quello che diceva capivo che conosceva molto bene l’Italia”. Interrogatori estenuanti, intervallati da piccoli momenti di pausa, dove il detenuto viene anche premiato con una sigaretta, un dattero o anche solo qualche minuto di conversazione apparentemente più rilassata. “Subito dopo cercano di spezzarti dandoti una brutta notizia”.
A parte le ore di permanenza in cella, dove una luce accesa notte e giorno non le consentiva di dormire, i movimenti per i corridoi del carcere avvenivano sempre da bendata, anche per andare in bagno. Non le hanno mai fatto del male fisicamente, non l’hanno nemmeno mai toccata — a mantenere la distanza fra lei e i suoi carcerieri c’era un bastone tenuto alle estremità per evitare contatti —, ma è la violenza mentale a farle temere per la sua “testa”, come riesce a confessare al compagno Daniele Ranieri durante una delle poche chiamate concessele: “Avevo paura di perdere il controllo”. Inizia così a contare le dita della mano e a leggere a ripetizione gli ingredienti del pane. Un modo come un altro per non impazzire.
Oltre alla privazione del sonno, alla requisizione degli occhiali, che in carcere sono considerati un’arma che i detenuti possono usare contro se stessi, e delle lenti a contatto, a preoccuparla erano gli sviluppi della crisi mediorientale e l’imminente insediamento di Donald Trump. “Era un conto alla rovescia che mi spaventava tantissimo. Se avesse detto pubblicamente che voleva ritorsioni contro qualche iraniano la mia situazione poteva complicarmi moltissimo”. “Ho capito di essere un ostaggio — spiega — quando mi hanno informato della morte di Jimmy Carter, il presidente americano della crisi degli ostaggi. È stata l’unica notizia che mi hanno dato durante la detenzione. In quel momento ho capito quale fosse la mia condizione”.
“Nessuno della mia famiglia ha mai parlato con Elon Musk” spiega Cecilia Sala a proposito del presunto coinvolgimento di Elon Musk. “La mia famiglia ha provato a contattare chiunque in quei momenti e l’unica priorità, dal loro punto di vista, era liberarmi. Il mio compagno ha contatto il referente, Andrea Stroppa, chiedendogli se potesse far arrivare la notizia a Musk, che qualche mese prima aveva incontrato l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, un evento storico dopo la crisi del ’79. Gli ha chiesto se potesse fare arrivare la notizia e l’unica risposta ricevuta è stata ‘informato'”. “Il tempo ti spezza, avevo paura per i miei nervi, se fossi rimasta in isolamento” confessa. A rompere questo muro di silenzio e disperazione è l’arrivo di una compagna di cella che, insieme ad un libro di Murakami, l’aiutano a farsi forza. E quando alle 9 del mattino dell’8 gennaio arriva la notizia che sarebbe stata rilasciata quel giorno, lei stenta a crederci. “Pensavo che le persone che mi erano venute a prendere fossero i pasdaran e non l’intelligence iraniana. Credevo mi stessero portando in una delle loro basi militari, quando poi all’aeroporto militare mi hanno sbendata e ho visto una faccia italianissima con un abito grigio ho fatto il sorriso più grande della mia vita. Poche ore dopo ero a Roma”.
Una liberazione lampo dopo solo tre settimane di detenzione non si ricordava dagli anni ’80, ammette Cecilia, che all’aeroporto di Ciampino è stata immortala in quella che lei stessa ha definito la foto più bella della sua vita, tra le braccia del compagno e poi dei suoi genitori commossi. Saggia e prudente, Cecilia fa sapere che non tornerà più in Iran, dove negli anni ha raccolto le storie di tantissime donne, finché ci sarà la Repubblica Islamica. Resta il senso di colpa di chi ce l’ha fatta, del sopravvissuto che riesce a uscire da quell’inferno, ma Cecilia è fiduciosa che un giorno potrà superarlo. Intanto ha ricominciato a sorridere.
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