Olivicoltura in crisi, come uscirne? – Economia e politica

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In Italia la produzione di olio di oliva da pressione nel 2023 è stata di 328mila tonnellata ed è stato considerato un anno di carica. Ma se ci si guarda indietro – e neanche troppo – la produzione dell’anno di carica 2015 fu di quasi 475mila tonnellate. In pratica tra due campagne confrontabili, nel giro di soli 8 anni, si sono involate circa 147mila tonnellate di olio di oliva, qualcosa come il 31% della produzione 2015.

 

E sono tante le cause di questo declino dell’olivicoltura che porta con sé quello della produzione di olio, e senza dubbio non ci sono solo la Xylella fastidiosa e la moria di olivi in Puglia ad alimentarlo. Clima, condizioni di mercato non sempre brillanti e non da ultimo l’abbandono delle zone interne, con la conseguente riduzione a bosco di centinaia di ettari abbandonati di oliveto. E oggi si fronteggiano due punti di vista sul come uscire da questa crisi epocale: un nuovo piano olivicolo nazionale o strategie su base territoriale. E forse la verità, come spesso accade, è nel mezzo.

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Confeuro, serve un piano per l’olivicoltura

“L’olivicoltura italiana sta vivendo un momento di profonda crisi, tra cambiamenti climatici, concorrenza sleale e difficoltà strutturali che danneggiano uno dei comparti simbolo del nostro patrimonio agroalimentare. I numeri d’altronde parlano chiaro: la produzione nazionale di olio d’oliva è in calo, col rischio di perdita di competitività sul mercato internazionale, mentre i costi di produzione continuano ad aumentare. A questo si aggiunge l’invasione di prodotti esteri di dubbia qualità, spesso spacciati come italiani, che penalizzano ulteriormente le piccole e medie imprese agricole del nostro Paese”. A rilanciare l’allarme nei giorni scorsi è stato Andrea Tiso, presidente nazionale Confeuro, la Confederazione degli Agricoltori Europei e del Mondo.

 

L’analisi di Confeuro sottolinea “la presenza di talune ataviche criticità, che stakeholder ed istituzioni faticano a risolvere: in primis, l’evidente incapacità di gestire la grandissima qualità dei prodotti della nostra madre terra. Pur avendo oltre 500 varietà di olio, infatti, stiamo perdendo posizioni nella classifica dei produttori, unitamente alla mancata attitudine nel valorizzare questo fondamentale bene agroalimentare. In questo scenario preoccupante e complesso è improcrastinabile uscire dal buio e dall’immobilismo che negli ultimi dieci anni ha caratterizzato il nostro Paese – che nel frattempo ha ceduto il passo ad altre nazioni che ci hanno copiato e bene in termini di olivicoltura di qualità e quantità”.

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Per Confeuro è giunta l’ora di politiche più concrete ed efficienti: serve incrementare gli investimenti strutturali, più fondi per combattere la Xylella e un ingente investimento in ricerca.

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“È necessario un piano strategico che metta al centro la sostenibilità, l’innovazione tecnologica e la valorizzazione dei prodotti di qualità certificata” sottolinea il presidente Tiso. “Chiediamo al Governo – aggiunge – azioni urgenti per tutelare i piccoli e medi produttori, che rappresentano l’anima del settore, e per contrastare efficacemente le pratiche di frode alimentare”. Insomma, in tutto un nuovo piano olivicolo nazionale. Ma su cosa puntare gli investimenti strutturali?

 

Italia Olivicola, uscire dall’abbandono dell’olivicoltura

Una risposta a questa domanda viene in parte da Italia Olivicola che – con una ricerca pubblicata nel gennaio 2024, giusto un anno fa – stima 200mila ettari di oliveti in stato di abbandono e oltre 300mila ettari che ricevono minime cure colturali e quindi con una produzione largamente inferiore alle potenzialità.

 

A questi numeri fa da contraltare oltre un milione di ettari di olivi da olio in produzione secondo l’Istat. Un dato nel quale si situano i 300mila che ricevono cure minime, ma che esclude probabilmente larga parte dei 200mila ettari di oliveti abbandonati.

 

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“La sottoutilizzazione e l’abbandono degli impianti olivicoli italiani sono una vera e propria emergenza alla quale è necessario porre rimedio, non solo per aumentare la capacità produttiva nazionale e perseguire la finalità della sovranità alimentare, ma anche per consentire alla millenaria coltura dell’olivo di esplicare le diverse funzioni ambientali, territoriali, paesaggistiche, economiche e sociali”. Con queste parole Gennaro Sicolo presidente di Italia Olivicola commentava un anno fa i risultati di un’analisi eseguita dalla propria organizzazione che ha studiato il fenomeno dell’abbandono degli oliveti e della gestione con pratiche colturali minime e tali da non sfruttare appieno le potenzialità della coltura.

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Tra l’altro, i 300mila ettari di oliveto gestiti con pratiche di puro mantenimento, sono tali da assicurare produzioni molto basse, con accentuata variabilità da un anno all’altro e con una scarsa resilienza nei confronti dei fenomeni avversi come gli eventi climatici e le fitopatie.

 

La ricognizione di Italia Olivicola ha individuato quattro macro categorie di impianti:

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  • Oliveti completamente abbandonati e ormai classificati come bosco, ai sensi del testo unico per le filiere forestali (articolo 3, commi 3 e 4 del Decreto Legislativo 34/2018);
  • Oliveti in stato di abbandono e in transizione verso il bosco;
  • Oliveti in coltivazione, con metodi produttivi più o meno efficaci, completi e continuativi, ma non rientranti nei fascicoli aziendali della Pac;
  • Oliveti in coltivazione, inseriti nei fascicoli aziendali della Pac, utilizzati dal conduttore per l’accesso ad una o più delle diverse forme di sostegno pubblico.

“È arrivato il momento – aveva affermato Gennaro Sicolo di porre un freno a questa deriva. Per tale ragione, Italia Olivicola ha scritto agli assessori all’Agricoltura delle regioni e delle province autonome italiane chiedendo di attivare dei tavoli di lavoro mirati, per trovare una soluzione strutturale, mettendo insieme i diversi strumenti di politica agraria previsti nell’ambito della Pac e negli interventi regionali e nazionali”.

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“Il fenomeno dell’abbandono olivicolo – aveva infine concluso Sicolo – va affrontato con progetti su scala territoriale, utilizzando anche il sistema delle piccole e medie organizzazioni di produttori che in questo modo potrebbero trovare un’occasione propizia per il rilancio e il consolidamento del loro ruolo all’interno della filiera”.

 

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Insomma, l’Italia potrebbe recuperare produzione, aggredendo l’abbandono degli oliveti e razionalizzando quelli sottoutilizzati, con politiche territoriali, gestite dalle regioni, ma anche con norme quadro nazionali integrate con le politiche di coesione in favore delle aree interne e che disegnino almeno la strategia di quello che resta in potenza il Paese secondo produttore mondiale di olio di oliva.



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